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Agricoltura rigenerativa: esempi di intervento nel Parco del Ticino

Tecniche rigenerative nell’ambito della risicoltura e dell’agricoltura: come si cura un terreno danneggiato, intervengono Dino Massignani di Riserva San Massimo e Giovanni Molina di Distretto Dinamo

Agricoltura intensiva e agricoltura rigenerativa

L’agricoltura intensiva è la tecnica agricola che predomina a livello globale. Di fatto un’industria, tra pianure di monocolture e centinaia di migliaia di capi di allevamento. Poco diffusa in Europa, è nel continente americano che trova il suo sviluppo più estremo. Per aumentare la capacità produttiva dei terreni a breve termine, riducendo il costo della manodopera, si ricorre ai prodotti chimici – fertilizzanti e pesticidi – e si basa sul modello della monocoltura. Giovanni Molina, direttore della cooperativa milanese Distretto Dinamo, spiega come il passaggio da un’agricoltura da sistema in equilibrio a modello intensificato di tipo lineare è avvenuto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, allorché «si è iniziato a intensificare i fattori produttivi in agricoltura, usando concimi di sintesi e prodotti fitosanitari». L’applicazione su larga scala di un modello intensivo «ha portato a consumare i fattori irriproducibili, in modo da aumentare la produzione per unità. Il modello lineare è entrato in crisi circa dieci anni fa». L’introduzione del modello di agricoltura intensiva nel contesto della Pianura Padana ha portato alla «distruzione delle aree polmone: se usi prodotti chimici, è difficile che le specie viventi possano preservarsi sul territorio», aggiunge Dino Massignani, direttore di Riserva San Massimo, azienda risicola nel Parco del Ticino.

Agricoltura rigenerativa, cosa è e come si pratica

Le tecniche di agricoltura intensiva erodono e danneggiano, oltre alla biodiversità, il suolo. I pesticidi uccidono i microbi che permettono al suolo di assorbire anidride carbonica, danneggiando lo strato di humus che mantiene il suolo fertile. I terreni diventano più deboli e gli imprenditori agricoli incrementano l’uso di prodotti chimici, avviando il circolo vizioso dell’agricoltura intensiva. I fertilizzanti mascherano la degradazione del suolo, che perde la sua capacità di assorbire carbonio, anzi lo libera al momento dell’aratura. Anche l’intervento meccanico per mezzo di aratri e altri macchinari contribuisce alla degradazione del suolo. L’agricoltura rigenerativa vuol dare nuova linfa al terreno danneggiato attraverso quattro tecniche: il minimo disturbo di mezzi meccanici, come l’aratro; il mantenimento della diversità o una rotazione di colture; piantumazione a ridosso dei campi coltivati di piante, siepi e arbusti, in modo che ci siano radici vive a mo’ di armatura del suolo; la migrazione dei capi di bestiame tra una zona e l’altra dei campi per creare compost.

La rigenerazione del suolo

La rigenerazione del suolo e della sua sostanza organica aumenta la capacità di biosequestro di carbonio dall’atmosfera. Anche abbattendo le emissioni fino a raggiungere la neutralità carbonica, il problema delle emissioni già presenti nell’atmosfera rimane: a giugno 2020 si è arrivati a toccare le 417,9 parti per milione di anidride carbonica. Nell’ambito del progetto ValSOS, Distretto Dinamo ha compiuto uno studio in collaborazione con il dipartimento di scienze ambientali dell’Università degli Studi Milano-Bicocca, per calcolare «quanto bisogna incrementare la sostanza organica presente nel suolo per togliere in modo sostanziale anidride carbonica dall’atmosfera». Il calcolo è teorico e spalmato su tutta la superficie agricola utilizzabile del pianeta.

Lo studio è stato condotto dal professor Roberto Comolli, (Dipartimento di scienze dell’ambiente e della terra presso l’Università degli studi di Milano) che, come spiega Molina, «ha calcolato che in media lo strato fertile in cui si accumula sostanza organica nel suolo, che varia a seconda di fattori tra cui l’approccio colturale, è di 30 centimetri: per togliere tutta la CO2 che si è accumulata dalla rivoluzione industriale a oggi basterebbe incrementare la sostanza organica dell’1,6% a livello globale. Il livello medio di contenuto di sostanza organica in un suolo agrario può andare dall’1% al 7-8%». Per la FAO «il parametro di allarme sulla suscettibilità di un suolo alla desertificazione e alla perdita di fertilità è il 2%; mediamente un buon suolo agrario ha un 3% di humus». Aumentando anche di poco l’humus presente nei suoli, si riuscirebbe a risolvere il problema del cambiamento climatico», innescando un processo di raffreddamento globale. 

Agricoltura rigenerativa al Parco Agricolo Sud di Milano

Le aziende che fanno parte della cooperativa Distretto Dinamo, fondato nel 2013, sono trentaquattro, sparse tra Parco Agricolo Sud Milano e Parco del Ticino, selezionate in base alla loro collocazione e alla condivisione del principio presente nello statuto di «non fare agricoltura intensiva e predatoria». Prosegue Molina, «dieci delle società facenti parte del Distretto fanno capo al gruppo di NeoRurale Hub». Neorurale Hub è nato con lo scopo di gestire in modo integrato la produzione agricola e ambientale, prendendo in carico «un terreno su cui era stata praticata monocoltura risicola. Hanno creato delle aree di coltura intensiva di riso, ma con delle frange di ambiente naturale paludoso che protegge la coltura stessa, aumentando la biodiversità».

Con la creazione dell’Environmental Field Margin, in vent’anni la biodiversità è aumentata del 170% e la naturalizzazione ha portato benefici all’agricoltura. Fanno parte di NeoRurale Hub «aziende risicole che hanno recuperato superfici per finalità non produttive, ma di carattere agroambientale, come boschi, aree umide, filari, siepi e fasce umide ai bordi delle risaie, utili per contenere fitopatie di origine pomologica. In NeoRurale Hub hanno migliorato le fasce ai margini delle risaie in modo da ricreare un’area umida e anche la riproduzione di insetti utili all’equilibrio dell’ambiente in risaia, perché contrastano quelli più dannosi, ne ha beneficiato». 

Riserva San Massimo: la produzione di riso

Le tecniche di agricoltura rigenerativa sono applicate nell’ambito della risicoltura anche da Riserva San Massimo, azienda agricola situata nella Valle del Ticino, un’area le cui condizioni naturali permettono «la produzione di riso di qualità – grazie al substrato del terreno torboso della valle e alla quantità di acqua presente». Non sarebbe possibile coltivare altri tipi di cereali a causa dell’abbondanza d’acqua presente nei terreni, dunque non è possibile attuare la rotazione di colture.

Per questa ragione Riserva San Massimo non riesce a coltivare riso biologico, anche perché «la varietà Carnaroli ha un ciclo vegetativo lungo e una crescita lenta: per questo motivo è esposta ai danni provocati dalla crescita dell’erba che rischia di sommergerlo, vanificando il suo sforzo di crescere». Come afferma Molina, «si può fare riso biologico senza utilizzo di erbicidi, solo a patto che rientri in un ciclo colturale di rotazioni. Chi fa risicoltura in genere fa monocoltura di riso e fare monocoltura di riso biologico è impossibile: non facendo rotazione è impossibile combattere le infestanti».

La biodiversità nella Riserva San Massimo

Per mantenere la biodiversità, Riserva San Massimo conserva «una superficie di 400 ettari di canneti, marcite, prati e brughiere, che svolgono la funzione di polmone naturale, un’area nella quale non c’è alcuna produzione, solo alberi e animali». Nell’area la biodiversità è cresciuta negli anni: nel contesto produttivo di Riserva San Massimo sono ospitate più di 800 specie viventi, secondo un censimento della FAO. Come spiega Dino Massignani, direttore della riserva, «nel progetto Sostare di Regione Lombardia e Parco del Ticino la Riserva San Massimo è risultata la realtà con il più alto grado di biodiversità sia di specie animali sia di specie vegetali presenti in loco tra cui la Marsilea e l’Osmunda Regalis, specie autoctone a protezione assoluta».

Nel 2004 Riserva San Massimo ha ottenuto lo status di Z.P.S. [Zona a protezione speciale], che oltre gli obblighi, «implica anche costi maggiori perché è necessario avvalersi della consulenza di tecnici specialisti per presentare qualunque documento agli enti preposti». La Riserva, per le sue coltivazioni, aderisce a tutte le misure previste dal PSR [Programma di Sviluppo Rurale, stabilito dalla Regione Lombardia]: «lasciamo le stoppie di riso tutto l’inverno, lasciamo tutti gli argini inerbiti, in modo che ci siano sempre dei sentieri ecologici per la biodiversità presente, e i solchi all’interno della risaia. In questo modo si mantiene l’acqua durante tutto l’intero ciclo vegetativo del riso e grazie ad essa si permette a tutte le specie anfibie di sopravvivere e di concludere il proprio ciclo vitale e di sostentamento».

Riso Carnaroli di qualità, come riconoscerlo

La coltura principale di Riserva San Massimo è il riso, ma è affiancata anche da altri tipi di colture, dei «cereali a perdere per il sostentamento della fauna selvatica che abita la Riserva: il mais e il sorgo sono seminati e lasciati come alimentazione per gli animali, in modo tale da alleggerire i danni che gli stessi arrecherebbero alla coltura del riso. L’alta densità di fauna presente trova modo di alimentarsi con questi raccolti». Ai campi di riso Carnaroli sono stati affiancati anche alberi da frutto per definire gli argini, sempre come colture a perdere per alimentare la fauna selvatica e gli insetti: la scelta è ricaduta su «varietà antiche di alberi, le più resistenti ad agenti quali funghi e ad altre problematiche che possono danneggiare la pianta»

Riso Carnaroli biologico

In origine Riserva San Massimo era una riserva di caccia. Ciò ne ha permesso la salvaguardia per anni, poiché, come racconta Massignani, qui «l’agricoltura non è mai stata finalizzata alla produzione intensiva, ma tutto è stato preservato a fini faunistici. Quando tra gli anni Ottanta e Duemila l’atrazina e altri prodotti erano distribuiti nei campi senza controlli, a San Massimo tutto era finalizzato alla caccia e non alla produzione cerealicola. In questo modo è stato preservato l’ecosistema della Riserva favorendo un equilibrio tra ogni specie vivente». Nella Riserva non è usato nessun tipo di insetticida, a tutela della biodiversità, anche perché «le specie viventi si autoregolano: la rana, la lucertola, la libellula, il tafano sono i predatori naturali degli insetti più piccoli che possono creare problemi alle colture».

Nella produzione del riso è adoperato un erbicida, per la difficoltà sopracitata di coltivare riso Carnaroli biologico. «L’erbicida utilizzato è a norma di legge ed è distribuito in bassi dosaggi per bloccare l’avanzamento dell’erba e permettere al riso di crescere. Questo prodotto è autorizzato dall’Ente Parco Ticino, dal quale abbiamo anche avuto la certificazione come produzione integrata, ossia un sistema di produzione a bassissimo impatto ambientale».

I vantaggi dell’agricoltura rigenerativa

Ci sono vantaggi economici che motivano la scelta di un modello di agricoltura rigenerativa? Molina e Massignani sono concordi nell’affermare che il beneficio economico sia minimo rispetto all’applicare un modello intensivo. Il cambiamento verso un modello di agricoltura rigenerativa non dipende solo dalle singole aziende, in quanto i prezzi sono imposti dal mercato – un modello di agricoltura alternativo a quella intensiva non è sostenibile a livello economico per tutti. Ci spiega Massignani che «il mercato porta molte realtà a dover fare delle scelte qualitative sul proprio prodotto, in quanto i prezzi dei cereali sono fissati. Se un’azienda non trova uno sbocco adeguato a piazzare il proprio prodotto, le scelte sostenibili non permettono all’azienda di sopravvivere. Spesso non è questione di mancanza di cura e attenzione».

In Riserva San Massimo la scelta di un modello di agricoltura rigenerativa è stata fatta con lo scopo «di mantenere l’ecosistema presente inalterato. Dal 1998 la proprietà si è impegnata per far sì che l’ambiente si mantenesse il più naturale possibile, per promuovere uno stile di vita diverso da quello imposto in una realtà dove prevale l’agricoltura intensiva», pur rinunciando a una maggiore rendita economica. I costi rispetto a un’azienda agricola che adopera tecniche intensive «sono principalmente nella conservazione dell’ambiente, perché al posto di avere un argine diserbato che non rilascia semi in campo abbiamo messo le piante da frutto e l’erba da falciare, che rispetto all’argine diserbato porta via tre volte il tempo. Gli alberi da frutto e le aree boscate creano un ombreggiamento all’interno del campo, che matura in ritardo, e quando vai a tagliare il riso hai tutti i chicchi verdi che diventano gessati, e quindi si ha una produttività più bassa e una resa più bassa».

Anche l’acquisto di sostanza organica naturale, come la cornumbia, ha un prezzo rapportato al quintale più alto rispetto ai concimi chimici. Altri fattori che influiscono sui costi sono la gestione della fauna, poiché «le oltre cinquecento unità di animali selvatici, come caprioli e daini, presenti in riserva mangiano il riso in germinazione e quando è maturo», e la conformazione dei campi, che sono tutti «superfici che non raggiungono l’ettaro: questo vuol dire che quando si va a lavorare il terreno si ha una perdita di tempo con le manovre da fare con il trattore e una dispersione di prodotto quando si distribuisce la cornumbia a causa della disomogeneità del campo».

Riserva San Massimo

La vendita del riso Carnaroli è l’unica fonte di guadagno di Riserva San Massimo. Il riso è venduto «ai privati, anche se in questo periodo sempre meno, perché cominciamo ad avere una rete di negozi in cui può acquistarlo, oltre che sul sito Internet, e forniamo direttamente i ristoranti, tra cui diversi ristoranti stellati».

Distretto Dinamo

Distretto Neorurale delle tre Acque di Milano
c/o cascina Forestina, Cisliano, Italia, 20046

Mariachiara Riva

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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