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Dibattito sulla fibra di soia: può essere un’alternativa vegetale?

Prodotta perlopiù in Cina e realizzata con scarti alimentari, la soia destinata al tessile alimenta dubbi sulla sua tracciabilità all’origine e sulla sua trasformazione chimica 

Tessuto dalla soia

Il tessuto si ricava dalle proteine all’interno del fagiolo di soia o dagli scarti della lavorazione di questo nell’industria alimentare. Se l’origine della materia prima è naturale, i trattamenti necessari per la creazione di questa fibra, paragonata per bellezza alla seta e per morbidezza al cashmere (a prodotto finito) – non sono ancora ben noti. I dubbi sulla sostenibilità nascono anche dalla poca tracciabilità della soia all’origine, prevalentemente cinese. 

Lampoon Interview: Claudio Tonin CNR di Biella

«Naturale non è sempre positivo, sintetico non è sempre dannoso». È questo il punto di vista dell’Ingegner Claudio Tonin dell’istituto di Sistemi e Tecnologie Industriali Intelligenti per il Manifatturiero Avanzato del CNR di Biella. È necessario fare una premessa per capire la distinzione tra fibre naturali o sintetiche. Ci sono fibre artificiali che derivano dai monomeri ottenuti dal petrolio e che unite, creano un polimero sintetico, polimeri naturali (come cellulosa, cotone, lignina, chitosano) e fibre naturali che vengono trattate chimicamente per arrivare ad un polimero sintetico (come la viscosa o il tessuto ottenuto dalle fibre del latte creato nel 1935 in Italia: il Lanital).

«L’interesse per la fibra di soia nasce in Giappone intorno agli anni Cinquanta. Insieme alla messa a punto della produzione di questa fibra, la ‘soybean’. Anche negli Stati Uniti si sperimentano fibre proteiche come quella derivata dal mais (Vicara) e dalle arachidi (Ardil)», racconta Tonin. La soia rientra tra le materie proteiche che devono essere trattate chimicamente per diventare fibra perché è una proteina globulare (concentrata nel fagiolo) e non lineare.

«Questa proteina non è filabile di per sé, bisogna estrarla dai fagioli di soia. Per farlo, le proteine devono essere sciolte in ambiente basico (soda caustica) perché in ambiente acido si rovinerebbero e in ambiente stabile (a ph cinque) non si slegherebbero. Dopo questo primo passaggio si ottengono delle soluzioni viscose che saranno poi estruse attraverso un macchinario con dei fori. Il ‘filo’ ricavato deve essere allineato e coagulato con una successiva immersione in una base di acqua e acido. Poi, le fibre devono essere rinforzate con sostanze reticolari reattive come l’alcool polivinilico – o come si faceva in passato – con la formaldeide (sostanza chimica con caratteristiche tossiche ndr)», spiega l’Ing. Tonin. «Le sostanze naturali non sono sempre buone e quelle sintetiche cattive (si pensi al cromo VI o all’amianto, presenti in natura). I procedimenti necessari per realizzare la fibra di soia non sono né semplici, né puliti»

Fibre naturali: quali sono

Le fibre naturali come lana, cotone e lino rappresentano una piccola percentuale del prodotto tessile presente nel mondo. La lana rappresenta meno dell’uno percento delle fibre che si consumano, mentre il poliestere supera il cinquanta percento. È una questione di quantità, prima di tutto. «Siamo a cento-tre, cento-quattro milioni di tonnellate di fibre consumate al mondo, di questo passo entro il 2030 ci saranno cento milioni di tonnellate di fibre sintetiche. Oggi il settanta percento è sintetico. Il futuro dell’abbigliamento sta nel riciclo, nel riutilizzo dell’usato. Non possiamo usare solo fibre naturali. Il cotone è una fibra che non tutti si possono permettere. Anche il prezzo del cotone è influenzato dal prezzo del petrolio. Il problema è qua: ci sono cinquecentomila stabilimenti che producono tessile ma gli spazi per coltivare le materie prime o per far brucare le pecore per la lana non possono soddisfare questi numeri», sottolinea Tonin. 

Coltivazione della soia: effetti sul terreno

Proprio per questo, per l’impossibilità a sostenere la quantità di materiale tessile necessario, si punta verso la lavorazione di nuove fibre e al miglioramento di queste. La coltivazione della soia ha un effetto positivo sul terreno in cui cresce. È una pianta leguminosa che arricchisce il terreno – fissa l’azoto atmosferico – e ne migliora la fertilità riducendo la presenza di infestanti.  Le leguminose, secondo i dati di Soia Italia (Associazione Proteine Sostenibili), rappresentano solo il tre-quattro percento dei terreni coltivati in Europa. In Italia viene prodotto il quarantasette percento della produzione UE di soia, destinata per l’alimentazione umana e zootecnica.

Gli obiettivi di Soia Italia sono quelli di promuovere e sostenere – nel Nord Italia – lo sviluppo di una coltivazione sostenibile (alta efficienza tecnologica, basso impatto ambientale) di soia non geneticamente modificata. Come per altre fibre vegetali (ad esempio canapa e lino) nel nostro Paese non esiste una filiera completa per la trasformazione di queste in tessuto. Ma c’è chi ha provato a cimentarsi nella realizzazione di un capo in fibra di soia. 

Dottor Vincenzo Caneparo, presidente di Davifil

Un’azienda biellese, specializzata nella produzione di filati di origine animale e vegetale non tinte (lana, cotone organico, seta, canapa, lino) anni fa ha sviluppato un progetto di ricerca e sviluppo su filati di fibra di soia miscelata con fibre animali, ora abbandonato. «Il tessuto finito era lucido come la seta e con una mano morbida. Poco resistente alle trazioni, alle colorazioni e poco tracciabile. Dovevamo acquistare la fibra da un produttore cinese che ha smesso di vendere la materia prima e vista la difficoltà nel reperire altra fibra, abbiamo ritenuto più corretto non utilizzare più materie destinate all’alimentare», spiega il Dottor Vincenzo Caneparo, presidente di Davifil.

Alla questione sull’uso di sostanze chimiche necessarie per lavorare la fibra di soia, si aggiunge quella etica. «È giusto utilizzare fonti di proteine alimentari per fare fibre in un mondo che soffre la fame? Si legge questa domanda sul primo capitolo di un libro che studiavo da ragazzo e che ancora oggi è considerato un fondamentale per lo studio delle fibre», racconta Tonin: «Si dice che le proteine utilizzate per produrre fibra di soia siano quelle di scarto. Per realizzare una buona fibra servono delle proteine lunghe – dubito che si tratti di solo materiale residuo. Per trasformarla in modo sostenibile servono anni di ricerca e costi».

Fibra di soia nella moda

La moda si è interessata a questa fibra nel 2016. L’eco-designer italiano, Tiziano Guardini: «Ho scoperto la fibra di soia per una conseguenza. Stavo lavorando con la seta non violenta. Sono contrario alla crudeltà con cui il bozzolo di seta viene bollito con il baco ancora al suo interno. In India ho trovato una realtà che ricava la seta dal bozzolo abbandonato al suo ultimo stadio, dopo che la farfalla se ne è andata. Sempre in India mi hanno parlato della fibra di soia e del suo essere vegetale», continua Guardini. «La realizzavano estrapolandola dallo scarto delle proteine globulari dei fagioli di soia provenienti dall’industria alimentare indiana. È nata una capsule collection di dodici outfit. A vista è lucente come la seta e al tatto è simile al lino, si capisce che è una fibra vegetale. L’unica differenza è che si sgualcisce molto facilmente».

Una collezione con pochi pezzi destinata a lanciare un messaggio. «Era il primo momento in cui si sperimentava l’approccio vegano-sostenibile ai materiali. È necessario avere la consapevolezza di far parte di un ecosistema. Bisogna produrre seguendo la chiave interpretativa della natura. In natura non esiste il concetto di scarto, tutto ha una possibilità di valore per qualcun altro. Noi dobbiamo vivere secondo natura». Anche gli accessori, le lampo e i dettagli delle sue creazioni provengono da aziende che utilizzano Econyl e cotone riciclato. Lo stilista, il primo ad essere premiato nel 2017 con il Franca Sozzani Award for Best Emerging Designer non ha più utilizzato la fibra di soia perché: «prende terreno da campi che possono essere destinati per l’alimentazione, quindi ho preferito abbandonarla»

BettaKnit aguglieria

Quattro sorelle pratesi invece, continuano a utilizzare la fibra di soia in abbinato al cotone organico. Non è alta moda, ma alto artigianato. BettaKnit è un brand nato nel 2010 e dedicato all’ aguglieria (filati, gomitoli e kit per lavorare a maglia). Una tradizione tessile alle spalle e una passione familiare le ha portate a sperimentare materiali di origine diversa. «Acquistiamo da un produttore italiano i vari tipi di filato. Il nostro cotone certificato GOTS proviene dall’Egitto, la fibra di soia ha origine cinese. L’abbinamento della fibra di soia con il cotone crea un tessuto fresco e traspirante. La fibra dotata di lucentezza. Abbiamo pensato a questa alternativa vegetale per soddisfare anche chi preferisce fibre non utilizzare quelle di origine animale. Ha proprietà antibatteriche, previene gli odori e ci sono degli studi che sostengono che blocchi le radiazioni UV. L’abbiamo lanciata online durante il lockdown», racconta Barbara Fani, cofondatrice di BettaKnit.

«Chi si avvicina al lavoro a maglia è molto attento alle tematiche ecologiche e ambientaliste. La fibra di soia è pensata come un prodotto bio perché nasce dagli scarti della produzione, ma l’impatto sulla sua trasformazione non lo conosciamo così bene. La tracciabilità all’origine è difficile da identificare», spiega Barbara Fani. 

Mariavittoria Zaglio

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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