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Piero e Barnaba Fornasetti: la famiglia che ha stravolto il significato di decorazione

Intervista a Barnaba Fornasetti. Non si è mai reso conto dell’eccentricità in cui abitava, essendoci nato dentro «Mi stupivo più della faccia dei miei compagni quando venivano a trovarmi»

Io stesso non so mai come presentarmi a chi non mi conosce, confessò Piero Fornasetti in un’intervista del 1983 a Nicoletta Pallini che gli chiedeva se si considerasse più pittore, designer o organizzatore di mostre. Pablo Neruda, mio buon amico e cliente, diede di me e del mio lavoro una definizione che apprezzo: ‘Il mago della magia preciosa y precisa’. Sono convinto, infatti, che i migliori giudici di un’opera d’arte non siano i critici o i professori, ma gli artisti e i poeti. Avrebbe senz’altro gradito il ricordo di Alberto Arbasino in Ritratti italiani come di un architetto dandy novecentesco, fuori dal tempo come certi vecchi signori milanesi remoti dai media e dalle mode in un loro intenso ritegno di camicie e gilets e velluti stravaganti e squisiti, argenteria e collezioni, zafferano e tartufi, e vita di club

Piero Fornasetti: una storia del design italiano

Fornasetti ha portato figure appartenenti all’immaginario collettivo con rivisitazioni ironiche e surrealiste, su vassoi, piatti in ceramica, stoffe, lampade, paraventi, ombrelli, mobili. Si è innamorato del volto ammiccante e misterioso della cantante lirica Lina Cavalieri e l’ha riprodotto in oltre 400 variazioni: con baffi, corona, passamontagna, occhiali. Se un giorno si scriverà la cronaca della mia vita, un capitolo dovrà essere intitolato Passione per Fornasetti, disse l’amico e architetto Gio Ponti. Andrea Branzi nel catalogo Electa del 2009 lo definisce un grafico che aveva un’idea originale del proprio lavoro come attività espansiva, diffusiva, ambientale, non destinata a impaginare manifesti o libri, ma a ricoprire la superficie del mondo e, decorandolo, a cambiarne il senso.

Barnaba Fornasetti: il rapporto con il padre

Piero Fornasetti è stato un designer, ma in casa è stato anche padre: «Era burrascoso, dedito al lavoro, severo e anticonformista. Incarnava un’idea autoritaria dell’educazione, che definirei teutonica, al limite del fascismo», racconta Barnaba Fornasetti, che dopo la sua morte ha preso la guida dell’attività paterna e in trent’anni l’ha fatta crescere. «Quando ero piccolo, se non fosse stato per mia madre che lo arginava, avrebbe voluto farmi seguire da un istitutore. Alla fine si arrivò al compromesso di assumere una schwester, una governante. Era tedesca, tutt’altro che morbida: per non farmi succhiare il dito – da piccolissimo – mi metteva i polsini inamidati, cioè maniche che mi impedivano di piegare il gomito»

Barnaba non poteva pranzare con i genitori ma doveva farlo in camera sua, ha passato i primi anni della sua vita senza avere contatti significativi con i suoi coetanei. Leggenda vuole che la prima collaborazione con il padre sia stata a tre anni, quando gli donò una margherita su una foglia di ortensia destinata a diventare il tema decorativo di un vassoio Fornasetti. Immagine poetica che rischia di far dimenticare il carattere ruvido e ingestibile di Piero: Barnaba è cresciuto prima sotto, poi contro, infine a fianco alla sua ombra.

Barnaba: l’origine del nome

Giulia Gelmi e Piero Fornasetti avrebbero voluto una femmina, che probabilmente avrebbero chiamato Barbara. La nascita di un maschio, l’11 settembre 1950, li colse impreparati: non sapendo che nome scegliere, guardarono sul calendario i santi del giorno 11 di ogni mese. Si fermarono sull’11 giugno, San Barnaba: uno degli apostoli; secondo una leggenda devozionale, quando arrivò a Milano il 13 marzo 51 al suo passaggio la neve si sciolse e sbocciarono i primi fiori, motivo per cui in città per secoli l’inizio della primavera si è festeggiato il 13 marzo. Il nome Barnaba poteva funzionare. 

I problemi, almeno per lui, sorsero quando per la prima volta uscì dalla protetta dimensione domestica per andare a scuola: le elementari Leonardo da Vinci, scuola modello della Milano bene, struttura a ferro di cavallo, «da una parte i maschi, dall’altra le femmine, ci vedevamo soltanto nell’ora settimanale di canto, in cui comunque restavamo lontani». Nessuno, neppure a Milano, aveva mai sentito il nome Barnaba: «Mia madre mi lasciava crescere i capelli lunghi con frangetta e mi vestiva secondo il suo modello di eleganza atemporale: pantaloni corti di velluto coi bottoni sotto e giacca corta marinara. Quegli abiti e il nome che mi ritrovavo resero il primo giorno di scuola piuttosto imbarazzante. Dovetti dimostrare ai miei compagni che non ero una femmina calandomi i pantaloni»

Barnaba non approfondì troppo chi fosse il santo che si trovava scritto sulla carta d’identità, fino a quando a prendere in mano quel documento fu un soldato egiziano in un poso di blocco in Sinai, durante un viaggio: «Lo guardò, mi guardò dritto negli occhi, io già temevo il peggio. Poi invece disse: ‘Ah, Barnaba, he knows the truth’, Barnaba, lui sa la verità». A Barnaba è attribuito un vangelo apocrifo – in realtà scritto in spagnolo e di tarda origine islamica, forse XIV secolo – che descrive Gesù come un uomo (non figlio di Dio) precursore di Maometto.

Casa Fornasetti

Casa Fornasetti era insieme abitazione – traboccante di mobili di antiquariato – e sede produttiva e atelier – in un viavai continuo di artigiani e artisti. Fu edificata dal padre di Piero a cavallo tra Otto e Novecento in Città Studi, allora zona ai margini della città e oggi pieno centro: «Da un lato c’era la città, dall’altro iniziavano i campi. Mio nonno comprò un terreno che era un metro e mezzo più basso rispetto al livello della strada e lo riempì di pietre da fiume e terriccio di bosco portati da carri di cavallo».

Piero archiviava immagini in faldoni divisi per temi: bottiglie, animali, architetture, etichette, vedute, pitture, trofei, armi, armature, carte da gioco, militaria. Una raccolta tutt’oggi custodita nella Casa e tra le fonti di ispirazione più importanti per l’atelier. Barnaba non si è mai reso conto dell’eccentricità in cui abitava, essendoci nato dentro: «Mi stupivo più della faccia dei miei compagni quando venivano a trovarmi». La casa era anche palcoscenico di un campionario umano senza eguali: «C’era un andirivieni continuo di persone, illustri, comuni, artisti, personaggi compassati ed estrosi, fuori dal comune. Da Raffaele Carrieri a Indro Montanelli passando per Fabrizio Clerici. Gio Ponti veniva a pranzo quando insegnava al Politecnico – pare che a casa sua non si mangiasse così bene».

«Anche personaggi meno noti ma ugualmente unici come Max Malacrida, collezionista di armi bianche e antiquario. C’è una foto buffa che ritrae mio padre, con un cappello da mondino giapponese, in barca con Malacrida e un tal Gigi Massa, antiquario pure lui. Poi un certo Bavassano, altro personaggio, che aveva un terreno dietro l’Idroscalo con una fattoria piena di animali. O ancora, un signore di origini nobili, dirigente di un’azienda farmaceutica con automobile inglese, sempre accompagnato dalla moglie, una designer di gioielli cinese». Piero Fornasetti amava organizzare con questi amici delle cene a tema: per esempio a base di soli formaggi. «Non cucinava mai, ma le rare volte che lo faceva cucinava bene».

Fornasetti alla fine degli anni Sessanta

A fine anni Sessanta il clima culturale e i gusti cominciavano a cambiare, in direzioni razionaliste e minimaliste, il contrario di quello che aveva sempre perseguito Fornasetti: anche il rapporto con Ponti, che invece tendeva ad assecondare il corso degli stili, si stava incrinando per questa divergenza di vedute. Assorbito in questi pensieri, Fornasetti non faceva molta attenzione a quel figlio che si era iscritto come lui all’Accademia di Brera ed era diventato un capellone e contestatore come tutti, innocuo e conformato alla moda. Poi il 12 aprile 1969 aprì il Corriere d’informazione e se lo trovò in un articolo a tutta pagina. Titolo: Furibondi scontri tra polizia e maoisti. Durante gli scontri sono state fermate settantun persone, sette delle quali sono state poi dichiarate in arresto e denunciate per blocco stradale, violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Ecco i loro nomi: […] Barnaba Fornasetti, di 19 anni.

L’articolo parla di un centro cittadino – via Larga, Missori, piazza Scala, Brera – trasformato per nove ore in un campo di battaglia fra le forze dell’ordine ed estremisti ‘filocinesi’ che hanno approfittato della ‘marcia del silenzio’, organizzata dai sindacati. Cariche della polizia, automobili usate come barricate, lacrimogeni. Il bilancio è di sei dimostranti feriti e settanta tra feriti e contusi tra le forze dell’ordine. Fornasetti e gli altri sei arrestati, tutti più grandi di lui, vengono portati a San Vittore. «Ci sono capitato dentro», racconta oggi Fornasetti, «avevo partecipato alla marcia pacifica e stavo tornando con alcuni compagni in uno studio di Brera che avevamo affittato. In via Solferino abbiamo trovato un manipolo di scalmanati che tiravano pietre e rovesciavano macchine. Siamo scappati ma siamo stati fermati, portati in questura e usati come capro espiatorio»

Barnaba Fornasetti si racconta a Lampoon 

Il 14 aprile il carcere di San Vittore, dove si trovano i sette ragazzi, è teatro di una rivolta: i detenuti prendono in ostaggio alcuni uomini della Polizia Penitenziaria, il carcere passa sotto il controllo degli insorti, 500 uomini delle forze dell’ordine si schierano contro 1800 detenuti. Il bilancio è di trenta feriti tra le forze dell’ordine e un centinaio tra i detenuti. Nei giorni seguenti cominciano le indagini sui fomentatori della rivolta. Un detenuto accusa i sette giovani estremisti arrestati per la rivolta incentro qualche giorno prima. 

In un articolo del 18 aprile 1969 del Corriere della sera si legge: Per il Fornasetti, accusato di resistenza, il difensore presenterà stamane un’istanza di libertà provvisoria corredata da 800 firme di studenti, insegnanti e personale di Brera ai cui corsi il giovane è iscritto. In una dichiarazione del direttore dell’Accademia, professor Varisco, il Fornasetti viene descritto come persona mite, fautore della non-violenza. Barnaba è terrorizzato, Piero scioccato: «Pochi giorni dopo vennero arrestati anche alcuni leader del movimento studentesco, tra cui Mario Capanna, accusati di sequestro di persona per il caso Trimarchi. Erano arresti farsa, c’era solo bisogno di capri espiatori. Ci fu una manifestazione studentesca a nostro favore, a cui partecipò anche mio padre. Il processo si risolse in un’assoluzione per insufficienza di prove»

Piero Fornasetti si accorse, probabilmente per la prima volta, che quel figlio cresciuto a bellezza e schwester aveva una sua identità e doveva farci i conti anche lui, non solo il contrario. «Il suo atteggiamento verso le istituzioni era cambiato, era meno reazionario. Quando la situazione in carcere si tranquillizzò, dopo la rivolta, cominciò a mandarmi i pacchi di cibo, che dividevo con gli altri detenuti»

Barnaba Fornasetti: la gioventù, la formazione, la carriera, la musica

Anche Piero, del resto, era stato un ribelle. Aveva rifiutato gli studi di ragioneria, cui avrebbe voluto instradarlo il padre Pietro per inserirlo nella sua industria manifatturiera, e si era iscritto all’Accademia di Brera nel 1930. Due anni dopo veniva espulso dall’Accademia per insubordinazione: si era opposto all’abolizione del disegno di nudo dal vero dettata dal puritanesimo dell’epoca. «Piero era già fidanzato con mia madre, mentre un suo caro amico e compagno era fidanzato con la sorella di mia madre. La famiglia delle due abitava in via Fiori oscuri, in Brera, e loro padre non le faceva avvicinare all’Accademia perché era considerata una scuola malfamata, poco seria, dove ‘ghera i dònn biot’, c’erano le donne nude»

Dopo essere stato cacciato dalla scuola Piero Fornasetti venne riammesso e vinse una borsa di studio con cui, invece di mettere da parte i soldi come facevano i ragazzi di buona famiglia, decise di imbarcarsi su una nave mercantile che lo portò in Africa. «Ho ancora alcune foto di quel viaggio: in pratica vide quasi solo porti».

Dopo la maturità, Barnaba Fornasetti lavora nello studio di Ken Scott, fashion designer amico del padre

Poi parte per la Toscana, dove ristruttura casali e commercia e restaura mobili antichi: «È stato un modo per dimostrare a mio padre che potevo fare da solo e per allontanarmi da Milano, perché non ne reggevo più l’atmosfera. Da una parte volevo inserirmi nel mondo artistico, dall’altra ho sempre sentito un senso di rivalsa nei suoi confronti. Col tempo il nostro rapporto era cambiato, eravamo meno intrappolati da schemi e ruoli, ma avevo comunque bisogno di sperimentarmi e capire chi ero lontano da lui».

Negli anni passati in Toscana, Barnaba approfondisce anche il suo amore per la musica – ennesimo elemento della personalità del figlio che si pone in antitesi dialettica con le aspettative del padre, disattendendole solo per poterle compiere meglio. Piero Fornasetti aveva sempre voluto che Barnaba imparasse a suonare uno strumento; quest’ultimo, per ribellione, non ha mai neppure imparato a leggere il pentagramma. 

Tutt’oggi Barnaba Fornasetti fa il dj: con Massimo Spinosa ha appena creando tre remix ballabili rap tratti da alcune arie del Don Giovanni, disponibili su Spotify e altre piattaforme. «La musica è una delle cose della vita che amo di più, la mia passione più grande. Quando mi chiedono di scegliere un oggetto che prediligo, sottintendendo un oggetto di design, la prima cosa a cui penso è il mio impianto stereo».

Fornasetti: le produzioni di design

L’idea di produzione di Piero Fornasetti nasce in comunione d’intenti con Gio Ponti negli anni Cinquanta. Fornasetti aveva proposto per la prima volta alcuni suoi lavori – foulard in seta stampata – alla Triennale del 1933: furono rifiutati ma notati dall’architetto. Nel 1936 espone per la prima volta alla Triennale una stele di bronzo e un fregio decorativo arcaizzante di ceramica. Quattro anni dopo Ponti gli commissiona alcuni lunari per i suoi edifici, in seguito una serie di motivi per ceramiche, esposte alla Triennale del 1947 (C’era una grande stima reciproca, anche se fino alla fine ci siamo sempre dati del lei, raccontò Fornasetti in un’intervista del 1983). 

L’obiettivo, sempre più chiaro negli anni Cinquanta, è realizzare produzioni in serie su vasta scala unendo industria, arte e artigianato: erano gli albori del design industriale, nessuno ancora lo faceva. «Gli ordini dei primi tempi tuttavia, non erano sufficienti per avviare produzioni industriali. Le aziende che avevano creato i prototipi esposti in Triennale si rifiutavano di avviare nuove produzioni a fronte di qualche decina o centinaia di ordini. Quindi mio padre decise di aprirsi una propria azienda e cominciare a produrli da solo. Cominciò in casa con mia madre, dove aveva già uno stampatore di litografie e comprò un forno per cuocere le ceramiche»

Fornasetti: l’evoluzione dell’azienda 

Negli anni Sessanta l’azienda raggiunse una sessantina di dipendenti e una clientela in tutto il mondo. «Gli andò bene fino a metà anni Settanta, quando cominciò a dilagare quello che chiamo il ‘purismo espiatorio del minimalismo’, soprattutto nel campo del design, che lo tagliò fuori». Il suo carattere difficile non facilitò le cose. 

Nel 1984 a Londra apre la galleria Themes and Variations (così chiamata in onore della serie più famosa di Fornasetti, Tema e variazioni), che mette all’asta alcuni suoi pezzi degli anni Cinquanta, venduti a buone quotazioni. L’interesse anglosassone verso il designer milanese si riaccende, ma a spegnerlo ci pensa egli stesso: «Alcuni collezionisti e antiquari vennero a trovarlo nel suo negozio a Brera per acquistare suoi mobili originali. Mio padre li guardò torvo e rispose che, essendo ancora in vita, tutto quello che faceva era originale. Quando gli inglesi spiegarono che erano interessati ai suoi mobili degli anni Cinquanta, analoghi a quelli appena battuti a Londra, Fornasetti mostrò loro le sue creazioni più recenti: migliorate e producibili in serie. ‘Quanti ne volete?’, chiese. Queste sue dichiarazioni misero in crisi il mercato antiquario, che non poté alzare le quotazioni dei suoi pezzi»

Nel periodo di maggiore crisi, con soli due dipendenti, gestiva personalmente il negozio in Brera e aveva poco tempo da dedicare a nuove produzioni: «Spesso acquistava in giro oggetti che gli piacevano e li decorava, modificava e metteva in vendita con il suo marchio. Oggi mi capita che alcune persone mi chiedano di autenticare oggetti che in realtà non erano suoi. Poi aveva messo in negozio falli colorati di diversi materiali, a volte freddava i clienti con i suoi modi». Il giovane designer francese Philippe Starck, autore del celebre spremiagrumi Alessi Juicy Salif, fu uno dei visitatori del negozio in quel periodo: «Ci era andato su suggerimento di amici. Oggi le creazioni Fornasetti per lui sono un capo saldo, ma mi ha confessato che quando entrò in quel negozio la prima volta restò abbastanza perplesso: trovò tutto bizzarro, non capiva».

Nel 1984 Piero Fornasetti chiede a Barnaba di tornare a Milano e aiutarlo con l’azienda

«Era la prima volta che mi chiedeva un aiuto professionale: nonostante il suo autoritarismo, in campo di scelte lavorative non mi aveva mai fatto pressioni, avendone subite lui stesso dai genitori. Mi chiamò perché cominciava ad avere grosse difficoltà, un po’ per colpa del suo carattere che lo faceva litigare con tutti, un po’ per la sua vulcanicità che lo portava a un eccesso di produzione artistica senza badare ai bilanci aziendali. Era un artista, non un amministratore». Barnaba torna a Milano e lavora con il padre per dieci anni. «Fu in questo periodo che ci riavvicinammo. Abbiamo iniziato a collaborare abbastanza serenamente. Non mi disse mai esplicitamente che era orgoglioso di me, lo venni a sapere da alcuni suoi amici».

Il supporto del figlio spinge Piero Fornasetti ad avventurarsi in nuovi spericolati progetti, come la pubblicazione di un libro che raccogliesse tutte le sue opere e ricostruisse il suo percorso artistico. Comincia a progettarlo in collaborazione con Patrick Mauries nel 1987, un anno prima di morire. «Aveva realizzato un menabò gigantesco, regolarmente rifiutato dalle case editrici. Alla fine la Thames & Hudson di Londra accettò di pubblicarlo in versione ridotta. Era stato chiesto a Ettore Sottsass di firmare la prefazione ma mio padre non credeva l’avrebbe fatto perché era molto amico di Fernanda Pivano, con cui Sottsass era in causa per il divorzio. Sul letto d’ospedale, pochi giorni prima di morire, ricevette la bellissima prefazione di Sottsass e ne fu molto commosso»

Scriveva Sottsass: Credo che Fornasetti un giorno, quando era giovane, abbia avuto una visione allucinante. Non so se era di giorno o era di notte, ma deve aver visto, tutto a un tratto, il mondo intero – tutti i depositi di figure e memorie – che saltava per aria. Sembra abbia pensato che se per terra non gli restava a disposizione che uno spessore di detriti, di roba rotta – e se quello doveva essere il pavimento su cui camminare, se doveva camminare sul terreno soffice di una specie di discarica informe, di frammenti, di brani, di segni senza collocazione – Fornasetti l’avrebbe rifatto lui, il mondo. Credo che per Piero le cose siano andate così; che per lui quell’insieme di persone, animali, sassi, montagne, alberi, cieli, piogge, monumenti, cimiteri, oggetti che nella nostra testa è un’organizzazione che chiamiamo mondo, sia veramente saltato per aria.

Fornasetti chiede alla sua segretaria di scrivergli una lettera di ringraziamento, ma non fa in tempo a dettargliela. Ne è rimasto solo un foglio firmato in bianco. Pochi anni dopo Barnaba Fornasetti riprende in mano il progetto del padre e lo amplia: nel 2009 esce per Electa Fornasetti, libro d’artista con 2800 illustrazioni, monumentale Bibbia Fornasettiana diventata oggetto da collezione. 

Anche dopo la sua morte, il padre ha continuato a fare incursioni nella vita di Barnaba, in sogno: «Un giorno sognai che in azienda cominciavamo a rintracciare dei falsi che circolavano. Quindi abbiamo cominciato a indagare: venivano tutti dalla provincia di Bergamo. Alla fine abbiamo scoperto che era lui che in realtà era ancora vivo e aveva finto di morire per sottrarsi ai creditori. Per campare si era messo a produrre le sue cose e metterle sul mercato a nostra insaputa».

Barnaba Fornasetti: il rapporto con Milano

Fornasetti è un nome storicamente legato a Milano, ma anche il rapporto con la città vede contrapposti padre e figlio. «Mio padre la amava molto, a tal punto che l’estate vi rimaneva per lavorare, stoicamente, in giacca e cravatta. Al massimo faceva qualche gita, ma poi tornava sempre qui. Un caldo afoso, umido, un’atmosfera desolata, e lui diceva che era bellissima». Barnaba invece preferisce stare in mezzo alla natura, come negli anni in Toscana:

«Il mio rapporto con Milano lo definirei di odio e amore, soprattutto a causa del clima e dell’inquinamento. D’altra parte la sua estetica è complessa, raccoglie molteplici stili in una sorta di campionario di bellezze di secoli diversi. Proprio nella sua mancanza di un’identità forte – dovuta alle diverse dominazioni storiche di potenze straniere e all’avvicendarsi delle amministrazioni e delle rispettive visioni urbanistiche, spesso solo abbozzate e poi deturpate – Milano ne ha generato una tutta sua, una sorta di identità del disordine»

Questo campionario di bellezze di secoli diversi si è espresso soprattutto nell’edilizia civile, nelle facciate delle case e nei cortili dei vecchi palazzi. «Gli esiti estetici migliori risalgono all’Ottocento e primi Novecento. Avvicinandosi ai nostri giorni la decorazione è diminuita progressivamente». Le considerazioni estetiche hanno lasciato il posto alle valutazioni economiche e le decorazioni sono state derubricate nel capitolo degli orpelli superflui. 

Tra le poche eccezioni Barnaba Fornasetti indica l’edificio moderno tra via Serbelloni e via Cappuccini, nel quartiere liberty della città, ricoperto da pannelli bianchi che creano sulla facciata motivi vegetali tridimensionali. «Mi piacerebbe collaborare con alcuni architetti per realizzare progetti decorativi sull’edilizia residenziale moderna. Si potrebbe ragionare sui materiali di riciclo, sulla tridimensionalità, sulla modularità, magari approfittando dell’attuale necessità di realizzare cappotti isolanti per gli edifici. La decorazione viene sempre considerata un qualcosa in più, non necessario, in realtà essa non è solo un elemento di piacere estetico ma anche un mezzo espressivo».

Fornasetti 

Oggi Fornasetti è un atelier in cui ogni oggetto è un multiplo d’arte realizzato a mano in edizioni annuali limitate. Lo store dal 2016 si trova in Corso Venezia 21/A: in un palazzo che ospitò Filippo Tommaso Marinetti. A questa produzione si affiancano progetti culturali seguiti dall’associazione Fornasetti Cult. L’azienda ha oltre cento dipendenti. «Fornasetti non si limita a creare prodotti ma è innanzitutto un atelier artistico, un luogo di pensiero e creatività. In ogni oggetto e progetto c’è una storia, una filosofia e un messaggio», spiega Barnaba Fornasetti, a guida dell’azienda.

Nicola Baroni

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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