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La Polo: dalle scimitarre persiane alla stecca, la t-shirt che ha rubato la scena a uno sport

Ralph Lauren inserì il nome Polo nel suo nuovo brand per renderlo più britannico. Poi creò la polo. Ultimo capitolo di una storia millenaria di influenze e fraintendimenti culturali: tutti necessari

Ralph Lipschitz

Nel 1967 il ventottenne Ralph Lipschitz, figlio di immigrati ebrei bielorussi emigrati a New York, fonda il suo marchio di cravatte da uomo. Il brand avrà il suo nome e il cognome che, insieme al fratello, si era fatto cambiare a sedici anni, per renderlo più americano: Ralph Lauren. Preceduto da ‘Polo’, un modo per farlo suonare più inglese, ispirandosi allo sport che amava, fatto di gesti eleganti, interconnessione umana e animale, alta società: mi trasmetteva l’idea di qualcosa di molto chic, dirà lo stilista. L’anno dopo crea la sua prima linea completa di abbigliamento maschile: camicie formali in tessuti sportivi. L’intuizione è quella di unire lo stile elegante inglese a quello dell’élite americana anni Venti, alla Grande Gatsby, mettendo il connubio a disposizione di chi non si sarebbe mai potuto permettere nessuno di questi due stili di vita.

La polo Ralph Lauren

Nel 1971 arriva la prima linea femminile, costituita da una collezione di camicie con taglio maschile, con un simbolo ricamato sui polsini: è il logo del giocatore di polo, oggi emblema del marchio. L’anno seguente nasce la ‘polo’: t-shirt in cotone con colletto morbido e apertura sul petto chiusa da due bottoni, un solo modello in 24 colori. Ralph Lauren non è stato il primo ad associare questa t-shirt al nome dello sport, ma ha consacrato l’abbinamento e cambiato i dizionari della moda e della lingua. In Inglese ha creato la “Polo shirt”, da nome comune a nome proprio; in italiano ha duplicato le possibilità semantiche di un vocabolo già esistente: il polo, maschile, lo sport; la polo, femminile, la t-shirt.

Polo: breve storia dello sport 

Il polo era molto diffuso in India, dove i giocatori nell’Ottocento indossavano magliette di cotone a maniche lunghe con bottoni ai colletti per agevolare i movimenti: un prototipo della polo. I militari britannici di stanza in India cominciarono ad adottare le uniformi dei giocatori di polo indiani e così la moda si diffuse in Occidente, insieme allo sport. John E. Brooks, ex presidente della Brooks Brothers, nel 1896 partecipò a una partita di polo in Inghilterra e notò che i colletti delle magliette dei giocatori erano abbottonati. Tornato negli Stati Uniti iniziò a produrre camicie Brooks Brothers con colletto che si abbottonava: si diffusero presto nella moda americana degli anni Venti, tra celebrità, artisti e politici. 

Louis Mountbatten, zio materno del principe Filippo duca di Edimburgo, ultimo viceré dell’Impero anglo-indiano e primo governatore generale dell’India indipendente, volle introdurre la disciplina nella Marina britannica: studiò attraverso palle da biliardo e modellini le tattiche, lesse tutti i libri che erano stati scritti a proposito e li confrontò, infine trasse le sue conclusioni e nel 1931 scrisse su questa disciplina un libro a lungo considerato un’opera basilare: An Introduction to Polo. Lo sport che era stato degli antichi re – come Gengis Khan, che lo amava – stava diventando il passatempo di nobili europei e rampolli di buona famiglia americana.

Nel 1920 Lewis Lacey aprì a Buenos Aires un negozio di articoli sportivi in cui vendeva maglie a maniche corte ricamate con l’emblema di un giocatore di polo da un disegno originario dell’Hurlingham Polo Club. Lacey era un giocatore di polo canadese con molte vittorie alle spalle, capitano della squadra inglese nella Coppa Internazionale di Polo nel 1924 e nel 1930. Nello stesso periodo anche il tennista francese Jean René Lacoste, detto ‘Le Crocodile’, cominciava a indossare una divisa sportiva a maniche corte e cotone piquet abbottonata a sostituire i tradizionali “bianchi da tennis”, camicie bianche a maniche lunghe. 

Ralph Lauren – la nascita della polo

Nel campionato US Open del 1926 Lacoste giocò con questa maglia bianca, sul petto il logo di un coccodrillo. Nel 1933, ritiratosi dal tennis, fondò il suo marchio e iniziò a commercializzare queste magliette come divise da tennis. A ispirare Ralph Lauren fu soprattutto la maglia di René Lacoste, a cui lo stilista accorciò le maniche per incontrare i gusti americani. Dopo aver varcato continenti e classi sociali, la polo attraversava le discipline sportive: nulla tuttavia in confronto alle influenze e ibridazioni culturali in cui per millenni si era mosso il gioco del polo.

Il gioco del polo e la metafora della vita

L’uomo è una palla lanciata nel campo dell’esistenza / spinta qua e là dalla mazza del destino / brandita dalla mano della provvidenza, scrisse il poeta persiano Arifi nel XV secolo in un poema mitico intitolato Gūi u ciōgān, ‘La palla e la mazza’, dedicato al gioco del polo. Il suo collega Firdusi, qualche secolo prima, aveva raccontato nel Libro dei Re di un torneo che nel 600 a.C. aveva visto contrapposti sette cavalieri persiani e sette turcomanni. Un principe di nome Siawusch avrebbe colpito la palla con tanto vigore da aver ‘mostrato la luna da vicino’. La letteratura persiana antica abbonda di riferimenti al chaugan, nome persiano del polo.

Nezami, poeta medievale persiano, lo usò come metafora della vita: Il limite del tuo campo di polo è l’orizzonte. La palla sulla curva della tua mazza è la Terra. Prima di essere nient’altro che polvere, galoppa e forza il passo della tua cavalcatura, perché il mondo ti appartiene.

Dalla Persia il gioco si diffuse in Arabia e Tibet, dove fu ribattezzato con un nome più vicino a quello con cui lo conosciamo: pulu, dal nome della radice, forse del salice, da cui si ricavava la palla. Da lì si è diffuso in Cina e Giappone. Il calpestio di cento cavalli al galoppo insieme, saltellando fianco a fianco; la palla salta, la mazza la dirige, nel cuore della corsa. Pelle rossa le loro briglie, oro giallo i loro pezzi. I cavalieri piegano i loro corpi, curvano le braccia attorno al petto della loro cavalcatura. Un tuono risponde al movimento della mano e la perla divina inizia il suo corso, scriveva il poeta Han Yu, IX secolo.

Le regole del gioco del Polo

La passione per il gioco del polo arrivò anche a Bisanzio: il basileus Teodosio II costruì un tzykanisterion – stadio per giocare il tzykanion, come i bizantini chiamavano il polo – nel gran palazzo di Costantinopoli. Si racconta che il basileus Alessandro morì per lo finimento dal gioco eccessivo e Giovanni I di Trebisonda a causa di un incidente durante il gioco. Un’altra etimologia fa risalire il polo dalla parola greca per ‘puledro’.

Secondo alcuni il gioco deriverebbe dalle esercitazioni della cavalleria per l’addestramento da combattimento a cavallo: il gesto del giocatore che colpisce la palla con la stecca è analogo al fendente vibrato con una sciabola. Secondo altri il polo nasce in Mongolia, paese in cui i nomadi cacciavano a cavallo, inseguendo la preda e colpendola a morte con un bastone. Le due ipotesi non si escludono reciprocamente.

La polo Ralph Lauren nella collezione permanente del MoMA 

L’immigrato di origine ebrea e bielorussa che nel 1967 a New York scelse di fare del polo e della polo il simbolo di un marchio, suggestionato dal dandismo britannico e americano di inizi Novecento, fu il coronamento di una storia millenaria di influenze, fraintendimenti e appropriazioni culturali: tutte feconde, nessuna depauperante. Nel 1977 la polo Ralph Lauren entra nella collezione permanente del MoMA: è uno dei capi simbolo degli ultimi decenni. Lo stesso anno l’azienda, per lanciare il proprio profumo, commissiona un videogioco sportivo dedicato a questo sport: a realizzarlo è Carol Shaw, tra le prime donne progettiste e programmatrici di videogiochi.

La rilassatezza della polo colorata contro la formalità della camicia, i passatempi oziosi – come il gioco del polo – contro il logorio dell’ufficio e del lavoro fatto di routine. La polo offre alla classe media la possibilità di avere, nello stile, ciò che ha sempre desiderato della nobiltà: non i soldi – mero veicolo – ma il tempo libero, l’opportunità dell’ozio assoluto, salvo anche dalle ansie produttive di viaggiare, mangiare, consumare, raggiungere risultati. L’ozio che si può riempire con un’inutile partita di polo.

La polo

La polo è indossata con la stessa legittimità dal broker newyorkese, come Jordan Belfort interpretato da Leonardo di Caprio in The Wolf of Wall Street nel 2013, e dal geenrico colletto bianco della classe media. Il cestista Dwayne Wade, nell’agosto 2010 al Bridgehampton Polo Club, sfoggiava una polo nuovo modello in cui il simbolo del cavallino è più grande del normale. A dimostrazione di quanto scrive Jean-Noel Kapferer in Lusso. Nuove sfide, nuovi sfidanti: Le persone con meno prestigio sociale ma con molti soldi a disposizione, spesso acquisiti di recente, sognano di rinforzare il loro status ricorrendo a prodotti di marca, e vogliono che si noti.

Quel giocatore con stecca sollevata sul petto sembra sguainare una scimitarra persiana o un’arma da caccia mongola: dietro le apparenze casual la rivendicazione di voler fare ciò che si vuole del proprio tempo, anche oziare, renderlo per una volta improduttivo. Prima di essere nient’altro che polvere, galoppa e forza il passo della tua cavalcatura, perché il mondo ti appartiene.

Nicola Baroni

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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