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Vernate – vincere contro il consumo di suolo

A fine Ottocento rischiò di diventare meta di turismo religioso: lo impedì un parroco. A fine Novecento rischiò di diventare un parco tematico: lo impedirono i vernatesi. Oggi lepri e aironi

Un parco della Musica a Milano

Nella pagina degli Spettacoli del Corriere della sera del 15 dicembre 1992, il disegnatore Roberto Gavioli annunciava in un’intervista un progetto a cui lavorava da anni: un Parco della Musica alle porte di Milano. È dall’85 – era l’anno europeo della musica – che ho in testa quest’idea, confessava. Si era già costituito un comitato organizzatore che comprendeva tra gli altri il direttore del Conservatorio di Milano Marcello Abbado, il direttore del Museo teatrale della Scala Giampiero Tintori, il musicista Giorgio Gaslini. Cosa si sarebbe trovato all’interno del parco lo spiega il giornalista all’inizio dell’articolo: Una perlustrazione dentro i meccanismi di un carillon, la riproduzione istantanea di una celebre scenografia scaligera… un viaggio dalla preistoria ai nostri giorni in compagnia del motivetto Fra Martino campanaro eseguito con gli strumenti di ogni epoca… una banca dati con tutte le informazioni dello scibile musicale… la creazione di ambientazioni visive e sonore attraverso laser, alta definizione, realtà virtuale.

Non pensiamo a folle oceaniche, ci accontentiamo di un milione di visitatori l’anno, spiegava Gavioli. Basteranno sei-sette ore per uscire dal parco con una conoscenza generale della musica. Il parco si sarebbe esteso per cento ettari di superficie, il doppio rispetto agli attuali cinquanta di Gardaland, sarebbe costato 300 miliardi ma non avrebbe richiesto contributi pubblici. Oltre agli investimenti della holding dell’immobiliarista Vincenzo Romagnoli, proprietario dei terreni, Marcello Abbado affermava di avere la fila di industrie di informatica e di comunicazione, di produttori di hardware e software, tutte pronte a partecipare agli investimenti. Sarebbe sorto nel Parco agricolo sud, comune di Vernate.

Terreni agricoli a sud di Milano

A trent’anni di distanza, a Vernate non c’è traccia delle collinette e canali artificiali navigabili previste dai progetti del parco, dei grandi capannoni percorribili su una navetta che avrebbero riassunto in poche ore la storia della musica mondiale, dell’anfiteatro all’aperto da 10mila posti, della discoteca a forma di L da 5mila persone, dei tre parcheggi disposti su altrettanti ingressi al parco. L’unica musica che si sente regolarmente è quella del campanile della frazione Moncucco, la più popolosa: un concerto di 6 campane in Fa3 del 1989, e altre due più antiche, rispettivamente del 1676 e 1747. Ai bordi della provinciale a due corsie che collega le cinque frazioni del paese si vedono le lepri e gli aironi cinerini che pescano con il becco dalle rogge o si alzano in volo sui campi coltivati.

Cosa sarebbe ora il parco della Musica, se fosse stato realizzato? Risponde uno dei primi a opporsi, inizialmente con un comitato di cittadini e poi da sindaco, Carlo Rapetti: «Quello che oggi è Gardaland, questo territorio non sarebbe più agricolo». Nel 1996, anno della prevista inaugurazione del parco, in un’indagine del Gruppo Panarecord su un campione di italiani, più della metà degli intervistati attribuiva l’Aida a Beethoven, la Traviata a Rossini e la Carmen a Verdi. Dato che negli ultimi trent’anni l’educazione musicale nelle scuole italiane è persino diminuita, è legittimo sospettare che il parco della Musica più che a Gardaland assomiglierebbe a Greenland, il luna park permanente costruito a metà anni Sessanta nel Parco delle Groane nel comune di Limbiate, provincia di Monza: abbandonato da vent’anni.

Carlo Rapetti, vita e attività politica 

Nel 1992 Carlo Rapetti faceva l’insegnante in una scuola elementare del quartiere di Gratosoglio. Si era trasferito a Vernate da Milano quindici anni prima, alla ricerca di tranquillità e aria pulita, anche a costo di fare il pendolare ogni giorno. Quando viene a conoscenza del progetto di costruire un parco della Musica proprio nel paese che aveva scelto per la sua tranquillità, organizza un comitato di cittadini contrari, a cui aderiscono anche tutti i partiti attivi in paese. «Andavamo in giro a dire di fare i conti: quanto faceva un milione di visitatori diviso 365? Era ovvio che questo territorio, già inserito nel Parco agricolo sud, avrebbe cambiato destinazione d’uso: da agricolo a turistico». Il comitato raccoglie 1111 firme e le consegna al sindaco, che si dimette, e il comune viene commissariato per qualche mese. A quel punto diverse persone chiedono a Rapetti di candidarsi alle elezioni comunali. Dopo aver incassato la promessa di sostegno da parte di tutti i partiti, Rapetti fa la mossa del cavallo, presentando una lista solo civica, che esclude i candidati ‘politici’. Alle elezioni del novembre 1993 si presentano tre liste, oltre a quella di Rapetti, che vince con il 46%. Cinque anni dopo vincerà di nuovo con il 73%.

Dopo i suoi dieci anni di amministrazione prende le redini il suo vicesindaco per dieci anni, e a seguire l’attuale sindaca, Carmen Manduca, formatasi anche lei tra le fila delle amministrazioni precedenti. Rapetti fino al 1999, anno della pensione, oltre ad amministrare ha insegnato alle scuole di Gratosoglio. «È anche colpa o merito nostro se Vernate oggi ha questo aspetto, a seconda dei punti di vista. Il piano regolatore approvato dal precedente sindaco prevedeva una crescita da 2248 a 5mila abitanti in 5 anni, oggi la popolazione è di 3500 abitanti». Niente Parco della Musica: «Non abbiamo dato permessi per edificare su aree a destinazione agricola. Tra le successive richieste che ho ricevuto c’è stata anche quella di costruire un’industria di cucine su 40mila metri quadrati di area agricola, ovviamente negato. Inoltre, abbiamo chiesto di inserire tutte le aree fuori dai centri abitati nel Parco agricolo sud: prima alcune erano escluse». Solo una cosa Rapetti non è riuscito a impedire: l’abbattimento della cascina di Vernate di proprietà Romagnoli. «Il precedente piano regolatore prevedeva la demolizione e ricostruzione: è stato impossibile impedirlo». L’attuale piano regolatore permette il rifacimento degli edifici senza aumentarne le volumetrie e una crescita di abitanti minima. «Chi viene qui a vivere sa di non avere la metropolitana e il tram, ma di poter respirare bene». La maggior parte dei vernatesi lavora a Milano, qualcuno alla Yomo, che ha sede in paese, poi ci sono gli agricoltori.

Il futuro: trasporti e ristrutturazioni 

Anche la sindaca Manduca – classe 1959, entrata in Comune come assessore di Rapetti nel 1993 e da allora mai uscita dall’Amministrazione – ha abitato a Milano fino al 1984. Si è trasferita a Vernate perché non voleva crescere sua figlia in città: «Con la pandemia la differenza di qualità della vita è stata ancora più evidente: lo sentivo nelle telefonate con mia sorella, che vive a Milano al quinto piano». Durante il suo secondo mandato Manduca ha realizzato una strada di 1,4 chilometri per collegare le frazioni di Vernate e Moncucco: su quella precedente non potevano passare nemmeno gli autobus. In paese ci sono tutti i servizi, i problemi arrivano quando i figli devono andare alle scuole superiori a Milano:

«L’autobus passa ogni mezz’ora nella vicina Binasco, ma raggiungere la fermata può essere un problema. Quella dei trasporti è una questione centrale, a cui stavamo lavorando prima della pandemia: se il Comune è ben collegato a Milano, la gente sceglierà di venire ad abitare qui». Lo spazio c’è, benché l’ultima variante al Piano di governo del territorio non preveda nuove zone edificabili, anzi le riduca: l’obiettivo è quello di ristrutturare cascine ed edifici abbandonati o non valorizzati. Molte di queste appartengono alla Fondazione Ca’ Granda dell’Ospedale Maggiore, che ha già anticipato che nel 2022 intende venderle. Tra le cascine lasciate a se stesse che andrebbero valorizzate c’è una Corte rurale, a Moncucco, dove Manduca vorrebbe creare un’oasi naturale e trasferire la sede del Comune.

Vernate: coltivazioni e allevamenti

Il Comune di Vernate comprende le frazioni di Vernate, Moncucco, Pasturago, Coazzano, Merlate e diciassette tra cascine e casolari sparsi, per un’area di 15 chilometri quadrati. La frazione oggi più popolosa e con la maggior parte dei servizi è Moncucco. Nel 1993 nella frazione di Vernate, dove ha sede il Municipio, abitavano sedici persone, ma non è sempre stato così: nella prima metà del secolo scorso, nelle due cascine di Vernate vivevano tra le 200 e 300 persone, che aumentavano nel periodo di trapianto e monda del riso. Con la meccanizzazione dell’agricoltura, le cascine della zona si sono lentamente spopolate e oggi vi abitano solo le famiglie dei proprietari o gestori. Pur avendo interrotto le attività di allevamento, tutte continuano con l’attività agricola: oggi si coltiva soprattutto riso, granoturco, soia, girasoli e verde per il foraggio.

La Cascina Santa Caterina (fa capo a NeoRuruale Hub, incubatore di progetti agroambientali rigenerativi) lascia il 10% dei suoi terreni agli uccelli: semina ma non raccoglie. A Pasturago c’è una zona umida: specchi d’acqua in gran parte occupati da vegetazione a canneto per un’estensione di circa 4 ettari creati artificialmente dagli scavi condotti in quest’area fin dall’antichità per recuperare sabbia e argilla a uso edile. Queste vasche profonde al massimo un metro sono diventate l’ambiente ideale per uccelli acquatici tra cui il martin pescatore, l’usignolo di fiume, la cannaiola, il cannareccione e il canapino, d’inverno il gufo comune.

Le frazioni del Comune di Vernate

Fino agli anni Settanta ogni frazione aveva il suo parroco. Col tempo le parrocchie sono state accorpate, ma tutt’oggi non coincidono con il territorio comunale: una comprende il comune di Casorate Primo e le frazioni Moncucco, Pasturago e Vernate, l’altra il comune di Noviglio e Coazzano. Ogni frazione ha il proprio cimitero. L’unione tra questi territori non è recente: già nella seconda metà del XII secolo, vennero creati comuni rurali con vincoli di solidarietà reciproci.

Si ha notizia che il 21 giugno 1195, i consoli di Vernate e Merlate si riunirono in presenza di un abate e due monaci che accusavano Giovanni de Cozo di non versare l’affitto dovuto da quattro anni. L’assemblea obbligò l’affittuario inadempiente a pagare il fitto dovuto di 2 staia milanesi, metà di segale e metà di miglio. Abate e monaci venivano dal vicino monastero cistercense di Morimondo, che da qualche decennio stava facendo incetta di terreni della zona per garantirsi le rendite utili alla costruzione del monastero e della chiesa.

Il castello di Coazzano 

La posizione di confine tra il territorio di Milano e quello pavese è stata la ragione che ha portato all’edificazione di uno dei principali beni storici della zona: il Castello di Coazzano. Nato probabilmente come fortificazione del sistema difensivo del capoluogo lombardo, nel 1357 Galeazzo II Visconti lo cede alla moglie Bianca Maria di Savoia, che alla sua morte lo dona al monastero di Santa Chiara di Pavia. Con la cessazione delle ostilità tra Pavia e Milano, l’originaria funzione difensiva era venuta meno e l’edificio continuava a funzionare come cascinale fortificato, con un controllo strategico sul Ticinello, che tutt’ora scorre a pochi passi dal castello. L’edificio si trova su un basamento leggermente rialzato e circondato a nord e est da un fossato: qui sorgeva probabilmente il vecchio castello medioevale, andato distrutto in seguito all’assedio del Barbarossa. Su questo stesso basamento nel Trecento è stata costruita una torre in mattoni con ponte levatoio, a cui si sono aggiunte in seguito gli altri corpi, una nuova entrata con un nuovo ponte levatoio, porticati, cortili, nuove torri, pilasti di rinforzo, una torretta che ospitava un forno da pane, un’ala separata con fattoria e un mulino ad acqua, sulle porte lunette con affreschi di madonne contadine.

L’uso è sempre stato agricolo: vi abitavano le famiglie che lavoravano i campi di Coazzano e le mondine stagionali. Come spesso accadeva, i rifacimenti si sovrapponevano alle strutture precedenti, vecchie entrate e finestre venivano tappate per aprirne di nuove, si aprivano muri verso il cortile interno, si allargavano le finestre e si occludevano quelle della torre per farne una colombaia, alcuni angoli crollavano e venivano ricostruiti: il risultato è un mosaico architettonico su cui ogni secolo, ogni proprietario o colono affittuario ha lasciato un segno del suo passaggio. Un pastiche d’architettura che a fine Ottocento cessò di essere la casa colonica principale del fondo agricolo e fu pian piano abbandonato: nel 1973 rischiava di cadere sotto il peso del tempo e dell’edera quando un nuovo proprietario cominciò a consolidare e restaurare l’edificio, eliminare i rifacimenti più tardivi e recuperare gli spazi originari. 

Il fiume Ticinello a Coazzano

Di fronte al castello, in un’area oggi di diversa proprietà, sorge l’Oratorio del Santissimo Crocifisso, una cappella quattrocentesca ben conservata ma per secoli adibita ad altro uso e oggi inaccessibile. Tra i due edifici scorre il Ticinello, in passato integrato nel sistema di canali navigabili che si stendeva nelle campagne attorno alla città di Milano. L’armonia è quella di un angolo di campagna padana rimasta intatta nel tempo, quella che Francesco Petrarca – che per otto anni visse nel milanese a servizio di Galeazzo II Visconti, allora proprietario del castello di Coazzano – descriveva così, con i suoi fontanili, in una lettera all’amico Guido Sette di Genova: È cinta d’ogni intorno da fonti piccoli e lucidi, e così intrecciati tra loro che appena si può comprendere donde vengano e donde vadano. A rovinare questo paesaggio oggi è solo la trafficata strada provinciale che taglia a metà l’abitato, costeggiando il castello.

Coazzano: storia e leggende

Nel cronicario della parrocchia di Coazzano si racconta che alle 9.30 del 26 agosto 1928 sul paese si scatena un violento temporale. Un fulmine colpisce il castello e scende fino alla stanza di Adamo Kshovic, ex prigioniero di guerra, sposatosi con una figlia del fattore: la scarica distrugge il mobilio, squarta il muro, scende in cucina, sfiora i capelli della moglie che cuce alla finestra, e da lì esce. Un aneddoto a metà tra il leggendario e il fumettistico, quasi una versione a lieto fine del racconto Un fulmine sul 220, che Carlo Emilio Gadda avrebbe scritto pochi anni dopo, in cui l’amore tra una borghese meneghina e un popolano finiva tragicamente con un fulmine che colpiva una cabina elettrica dove i due amanti si erano rifugiati. A Coazzano la caustica critica gaddiana non avrebbe avuto presa: più che la borghesia a inizio secolo a Coazzano abitavano proletari, il fulmine poteva uscire da una finestra senza fare vittime. Questo non è l’unico ‘miracolo’ avvenuto a Coazzano. Il cronicario parrocchiale riporta anche che il 25 maggio 1894 un signore si presentò in canonica con voce tremante invitando il parroco a recarsi in chiesa: la Madonna del Santo Rosario piangeva.

Il parroco non dà credito a quelle parole, ma un quarto d’ora dopo la stessa cosa gliela riferisce un uomo di non comune intelligenza ma grande bestemmiatore. Per togliersi quella seccatura il parroco decide di andare a vedere cosa sta succedendo e trova la chiesa – vicina al castello, sull’altro lato dell’attuale strada provinciale – gremita di fanciulli, donne e lumi accesi. Non dice nulla, ma la sera fa sgomberare e chiudere l’edificio. Il popolo continua per parecchi giorni a recarsi davanti alla statua. Era quello un periodo in cui le apparizioni e lacrimazioni mariane proliferavano, e le autorità ecclesiastiche erano caute nel dar credito a queste credenze. Lo si vede dalla conclusione del racconto del cronicario, con il parroco che qualche tempo dopo si trova a parlare con un superiore in piazza Sant’Alessandro, a Milano, e riferisce: Monsignore, non sa che i miei parrocchiani vorrebbero rendere celebre Coazzano? E gli raccontò il curioso fatterello. Ed egli: possono essere suggestioni facili in un popolo di campagna, non conviene dare facile importanza. Cosa sarebbe diventata Coazzano se il parroco avesse ceduto a quelle richieste si può vedere andando a Campocavallo, una frazione di Osimo, in provincia di Ancona. Proprio due anni prima, in una chiesetta di campagna, un’immagine oleografica della Madonna fu vista muovere gli occhi: in quel caso il parroco affidò immediatamente l’incarico di edificare un nuovo santuario a un architetto locale, in stile neorinascimentale lombardo. Arrivarono fedeli e pellegrini da tutta Europa.

Nicola Baroni

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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