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Elena del Montenegro, regina d'Italia, nel 1910 circa
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Una visita alla regina Elena di Savoia

Nel percorrere il corridoio del primo piano, il suo aspetto normale pare trasfigurarsi: quale, fra tante, sarà la porta della Regina?

Pubblichiamo un’antica lettera che racconta una visita a Cannes e l’incontro con la Regina Elena. Purtroppo non siamo riusciti a identificare l’autore.

Albergo Majestic, Cannes

Qualche minuto prima di lasciare Cannes all’ora convenuta per proseguire verso Montecarlo, mentre sostiamo nell’atrio dell’Albergo Majestic in attesa dell’automobile, mi sembra di ravvisare in una signora anziana, grassoccia ma sveltita da un abito bianco e nero, la Contessa Jaccarino ferma davanti all’ascensore nell’atteggiamento affrettato di chi continua un dovere importante da compiere. Dico alla mia amica: L’avvicini subito e le chieda se Sua Maestà si volesse degnare di riceverci. Un dialogo rapido e sommesso si impegna tra le due dame, con tono di famigliare complicità. La Contessa è di già sparita nel vano ferrigno, mentre ci abbandoniamo a quella particolare emotività che quasi sempre sogliono suscitare i Grandi della terra. Siamo, la mia amica ed io, tutti e due in tenuta di viaggio; il desiderio di apparire più presentabili contrasta con quello di poterci valere dell’occasione per porgere il dovuto omaggio. Mentre i nostri pensieri si accavallano precorrendo il momento, la Dame d’Atours è ridiscesa per avvertirci che la Sovrana ci attende.

Elena, Principessa del Montenegro

Nel percorrere un poco commossi il corridoio del primo piano, il suo aspetto normale, per un effetto della suggestione, pare trasfigurarsi: quale, fra tante, sarà la porta che ci metterà al cospetto della Regina? Ma la Contessa che ci ha fatto strada ha già aperto il largo battente del salotto privato; nell’attesa rimaniamo soli su un vasto tappeto fiorato. Dall’ampia finestra aperta sul giardino un oleandro gigantesco costellato di fiori vermigli spicca sul cielo immacolato: in fondo è il mare. I pochi mobili della stanza mandano bagliori azzurri; nel mezzo una tavola rotonda, accanto alla finestra qualche poltrona, a destra un tavolino regge le stoviglie per la colazione. Dopo pochi istanti una porta laterale si apre lentamente e nello stretto vano appare la Sovrana. Abbiamo appena il tempo di inchinarci, che già due vigorose braccia si chiudono in tenero e caldo amplesso sul fragile dorso della dama genuflessa. L’abbraccio è lungo, la mano da baciare mi vien tesa con dimessa femminilità; una mano capace, nodosa, atta al lavoro ed al dono. Il nero volto dalle trecce d’acciaio si è acceso di qualche breve lampo, nello sguardo più severo che dolce, mentre si rivolge a noi in un italiano dall’accento straniero. All’invito sediamo. Essa si esprime in tono semplice e naturale e quel fraseggiare misurato, quasi stentato, ha la sua grazia. La voce esotica narra cose della famiglia, fatti della sua vita africana, episodi del suo soggiorno in Francia, uno recente che si studia di raccontare, per quanto molto lusinghiero e commovente, senza teatralità alcuna, anzi, con una estrema riservatezza, quasi che il minimo accenno alla sua regalità offenda la sua presente condizione. In quel bronzo Illirico squilla talvolta il timbro argentino del figlio esule, vestigio di una lontana vitalità. La voce, accompagnata dal greve respiro, dal gesto stanco, prosegue il suo dire, rivelando a tratti solamente ciò che rimane di una estinta passionalità: un nome, un ricordo, un richiamo, una pausa; la pesca, le albe sul Delta, una figlia. Il passato è morto e la desertica fronte ogni volta riprende l’accorata compostezza di chi serva una profonda ferita nascosta. 

Regina d’Italia

La Sovrana si è alzata, il commiato è imminente; ha riabbracciato la sua Dama, poi si avvia silenziosamente verso la porta che essa richiude, indugiando in un ultimo prolungato sorriso. La donna tosto riprenderà la di là della parete la sua esistenza appartata. Nella stanza aleggiano sconvolte in un nembo di memorie e di evocazioni le insegne della Stirpe: lo scettro velato, la corona, lo scudo, gli artigli pervicaci delle aquile, il serto adamantino. Usciamo tacitamente, lasciando che quei simboli augusti abbiano il tempo di ricomporsi. Di fuori la compagna fedele nell’avversità d ci riconduce con l’orgasmo di chi compie un rito quotidiano con fervida padronanza di sé e del bene su cui Veglia. La macchina fila lungo il litorale; le parole profferite saranno più volte rievocate durante il tragitto; ritornerà l’immagine del salotto, il ricordo dei fasti e degli apparati, attributi di un’epoca quasi leggendaria. Ci vorrà ancora qualche ora perché tali fantasmi si dileguano, perché il nodo che ci stinge alla gola si disciolga. La figura della Regina dolente ci riempie tutt’ora, e la tristezza di quell’ultimo suo sguardo lunato che nell’addio si fece più oscuro.

Tu che regnasti sui popoli, ora si entrata nella piena sudditanza del Signore. Egli ritroverà nella Tua presente umiltà la vera maestà del Tuo cuore, che schivo di ogni pompa ed onore, amò le sue genti, sollevò i miseri, gli afflitti e seppe inchinarsi al Fato con prona grandezza. Nunc dimittis!

Le fanfare Celesti riecheggeranno un giorno nell’Eternità beata, per la Gloria dei Martiri, degli Eroi, dei Buoni, allorché ogni voce sarà spenta sulla Terra. 

Editorial Team

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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