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Nel dibattito pubblico italiano non c’è nulla di più ipocrita e escludente dell’inclusività

Migranti, LGBTQ+, genere, disabilità: in Italia anche chi si dice progressista è conservatore; così i diritti sono solo un hashtag

Il sacrilego bacio tra due uomini a Un posto al sole: la cultura tradizionale italiana

E così il 2023 si è aperto con un nuovo episodio dell’italica lotta per i valori della tradizione: pensate, nell’anno del signore 2023 gli ingenui sceneggiatori di Un posto al sole hanno pensato di mandare in onda un bacio tra due uomini. Sacrilegio. «Potevano evitare di mandarlo in fascia protetta» è stato il commento, sia mai che i bambini poi crescano deviati. Perché insomma, sta cosa dei gay va bene, non li arrestiamo, però che non si azzardino a baciarsi. Questa che sembra una becera boutade, in realtà riassume perfettamente il sentire culturale di questo Paese.

Comandano algoritmo, click e trend topic, i media sono schiavi dell’engagement: si parla di diritti solo durante le ‘giornate contro’

A causa dell’amore per l’algoritmo che affligge i media, tradizionali e digitali, è passato il periodo in cui era alta l’attenzione verso le necessarie riforme relative alla sfera dei diritti in Italia. Vero è che la presenza di un governo di destra che ha sempre osteggiato il progresso civile dovrebbe essere la ragione primaria per il giornalismo di tenere alta l’allerta su tali tematiche, ma i click comandano. Meglio riservare i post e gli articoli alle varie ‘giornate contro’, così è sicuro che si cavalca il trend topic.

Questo atteggiamento non è solo dettato dall’ossessione per l’engagement dei media italiani, ma da una predisposizione socio-culturale, che si riscontra in particolare quando si parla di diritti. C’è in particolare un concetto, una parola, che per l’uso che se n’è fatto negli ultimi anni,  racchiude in sé tutta l’ipocrisia della società italiana: inclusività.

Felice Cimatti, professore di Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria e conduttore di Uomini e Profeti su Rai Radio 3: l’esclusione inclusiva di Deleuze e Guattari

«Oggi il piano di confronto è quello dell’inclusione esclusiva: o così, o così» spiega Felice Cimatti, professore di filosofia del linguaggio all’Università della Calabria e conduttore del programma radiofonico Uomini e Profeti, Radio3. «Sarebbe più giusto adottare una visione che parta dal concetto filosofico introdotto da Deleuze e Guattari, quello dell’esclusione inclusiva: partendo cioè da due punti di vista esclusivi, diversi, giungere ad un’unione che non è sintesi ma somma. Sta ai due punti diversi però trovare il modo per sommarsi e stare insieme, e questo richiede lavoro, tanto. La diversità è una virtù, è essenziale e non deve essere annullata. Effettuare una sintesi più semplice perché lavora per sottrazione delle diversità, ma qui il punto è creare uno spazio dove la somma possa convivere. Questo è un lavoro che deve essere da parte di entrambe le parti però, annullando sia l’esaltazione del Noi – abbiamo sempre fatto così e non vogliamo cambiare – sia il primato dell’Io – io sono o faccio così e pretendo che tu lo accetti».

La prima proposta di riforma della cittadinanza del 1992, e la proposta per la tutela dei diritti avanzata da Arcigay del 1996

Procediamo per gradi. Si diceva, nonostante la scomparsa momentanea degli hashtag relativi alla riforma della cittadinanza e al DDL Zan – che è bene ricordare interessava non solo le discriminazioni legate a sesso genere, orientamento sessuale e identità di genere, ma anche alle disabilità – in Italia i diritti sono rimasti al palo. La riforma della cittadinanza si aspetta del 1992, mentre una legge che tuteli i diritti dei diversamente abili e della comunità Lgbtq si aspetta dal 1996, anno in cui fu elaborata la prima proposta da Arcigay nel 1996.

Il diritto muta al mutare della società e della cultura. Queste in Italia sono cambiate? Il dibattito pubblico dimostra di no 

È troppo facile fermarsi a dare la colpa alla politica. Il diritto muta al mutare della società e della cultura. La domanda da porsi è: la società e la cultura italiane sono cambiate? Se per l’analisi dei mutamenti sociali gli strumenti migliori sono i dati, per un’analisi culturale è possibile concentrarsi su quella che è una delle sue espressioni più evidenti: il dibattito pubblico. Lo stato di salute di questo è infatti direttamente proporzionale a quello della cultura che lo genera. Per esempio, le polemiche legate al bacio tra due uomini nella principale serie nazional popolare qualcosa dice.

Il conservatorismo italiano: l’Armadio della Vergogna, il fascismo mai processato e l’oltraggio dell’ananas sulla pizza

L’Italia è un paese conservatore, lo è da sempre, in particolar modo sul piano culturale. D’altronde, si sa, le nostre tradizioni ‘sono le migliori’: per tradizione infatti non abbiamo processato i gerarchi fascisti – se non la conoscete andate a informarvi sulla storia dell’Armadio della Vergogna – ma se metti l’ananas sulla pizza siamo pronti a ristabilire la legge marziale. Sbaglia però chi ritiene che il conservatorismo italico sia proprietà esclusiva di una parte politica, o ideologica. A fianco al conservatorismo sfacciato, palese e rivendicato – quello delle crociate per i presepi, i crocefissi e la lingua pura, i porti chiusi e la paura della sostituzione etnica, dei baci per strada e della teoria gender che corrompe la gioventù – ce n’è un altro, apparentemente meno battagliero, spesso inconsapevole e proprio per questo più subdolo e incisivo: il conservatorismo progressista. E come si diceva, il concetto che meglio di tutti oggi rappresenta ed esemplifica tale atteggiamento è quello di inclusività.

Ieri ‘resilienza’, ‘transizione’ e ‘responsabilità’; oggi ‘inclusività’: la comunicazione che svuota i significati 

All’interno del dibattito pubblico, inteso come una somma dei contenuti prodotti in particolare da politica e media, esistono ciclicamente delle parole ricorrenti. C’è stato il momento della resilienza, legato al periodo storico della crisi economica, quello della transizione, il momento poi della responsabilità. Sono tutte espressioni atte ad indicare delle condizioni dello spirito più che qualcosa di concreto, parole che la comunicazione scientemente sceglie con l’obiettivo di dire tutto, e niente. Quando si parla però di diritti e di fenomeni a essi legati, la scelta delle parole diventa paradigmatica, sintomatica della cultura che le genera. Esempi di questo sono l’uso dell’espressione ‘immigrazione’, la cui accezione negativa rimanda ad una fantomatica invasione – immigrati ha infatti sostituito in toto la vucumprà – o all’espressione, coniata a tavolino per la prima volta dal Vaticano, della teoria gender

Enrico Gargiulo, professore associato in Sociologia generale nel Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna: l’esempio del multiculturalismo, la Nuova Destra francese di Alain de Benoist e Giovanni Sartori

«Negli anni ne abbiamo sentite di tutti i colori, la logica dell’inclusività è l’ultima in ordine cronologico, insieme al diversity management – spiega Enrico Gargiulo, professore associato in Sociologia generale nel Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna. «Prima andava di moda il termine ‘multiculturalismo’, che ha avuto varie declinazioni: riconoscono che ci sono state delle letture in buona fede, ma i veri danni culturali sono stati fatti da chi lo ha declinato in chiave profondamente razzista. Quella per esempio che ne fece la Nuova Destra francese di Alain de Benoist negli anni Novanta, che ha cavalcato proprio la cultura come ragione dell’esclusione. Non potendo più utilizzare il concetto di ‘razza’ si è inventato la diversità culturale come fonte di incompatibilità. Un concetto che purtroppo in Italia è stato recepito anche da intellettuali come Giovanni Sartori, sulla carta un progressista». 

Migranti: nel dibattito pubblico l’inclusività ha solo sostituito l’integrazione

È nelle fila della parte più progressista del Paese che l’inclusività diventa trend, si potrebbe dire ‘performativa’. A un’analisi attenta infatti oggi il nuovo paradigma inclusivo ha sostituito – non ampliato né modificato – quello di integrazione, ampiamente criticato perché significa letteralmente «Inserirsi in un contesto sociale, politico, culturale, accettandone i sistemi, i costumi, la mentalità», annullando la propria cultura. Nulla di diverso dal paradigma inclusivo di oggi: Io – essere superiore in quanto membro di una cultura superiore – mi sento legittimato a includere Te – essere inferiore. Lo faccio solo se annulli tutto ciò che ti rende ‘diverso’ da me se rispetti le regole morali e pratiche che Io ti obbligo a rispettare. 

Il carattere escludente e ipocrita del concetto di inclusività si manifesta in tutta la sua ipocrisia quando viene accostato alle tematiche relative alle migrazioni, dall’accoglienza alla cittadinanza. Il mondo politico, lo abbiamo detto, preferisce l’immobilismo, ma la cultura italiana da parte sua non sostiene la necessità di riformare un sistema che dimostra ogni giorno sua la sua obsolescenza, ma escogita modi linguistici per giustificare quell’immobilismo. 

La cultura usata per escludere: l’esempio della cittadinanza italiana 

Enrico Gargiulo, che del tema della cittadinanza si è occupato fin dal 2008 nel volume L’inclusione esclusiva. Sociologia della cittadinanza sociale, spiega: «Quando si parla di cittadinanza il discorso è ormai solo culturale. Oggi gli ostacoli e le resistenze che vengono apposti a una riforma della cittadinanza vertono solo sul piano culturale, e ci si concentra su quel vecchio concetto di integrazione. Conosci la lingua? Sai l’inno nazionale? In questo particolare aspetto l’integrazione nel tessuto sociale di un Paese non viene letto come la capacità di partecipare concretamente alla vita di quel Paese, per esempio sull’effettiva possibilità di accesso ai diritti sociali, beni e servizi, ma solo come Cultura. L’idea di base che viene proposta è che anche se sei nato in Italia non puoi considerarti italiano perché i tuoi genitori sono portatori di un’altra cultura. Poco importa che magari tu non hai neanche mai visto il paese d’origine dei tuoi parenti».

Il dibattito pubblico e la cittadinanza premio: i bambini eroi

L’ipocrisia escludente dell’inclusività dà vita a fenomeni grotteschi come quelli relativi alla cittadinanza premio. Gli esempi sono innumerevoli, ma alcuni diventano significativi proprio per l’uso che ne ha fatto il dibattito pubblico. Ricordate il caso di Adam El Hamami e Ramy Shehata, bambini italiani di origine marocchina e egiziana? Nel marzo 2019 hanno contribuito a sventare l’attentato al bus a bordo del quale viaggiavano coi compagni di scuola, poi incendiato dall’autista. Vennero definiti dai media ‘bambini eroi’ e fu immediatamente avviato l’iter per conferirgli la cittadinanza. Se sei un eroe infatti la nostra società è legittimata a concedere al ‘diverso’ la cittadinanza. Fu lo stesso Ramy Shehata a dichiarare: «Se mi daranno davvero la cittadinanza italiana sarò felice, ma dovrebbero darla anche a mio fratello e ai miei compagni di classe di origini straniere che vivono in Italia da tanto tempo e magari sono pure nati qui». Ovviamente così non è stato. C’è posto solo per gli eroi. 

Giovanni Malagò e lo ius soli sportivo

Il carattere di esclusivo dell’odierno concetto di inclusività, torna alla ribalta quando si parla di glorie sportive. Durante le Olimpiadi 2021 furono molti gli italiani-non italiani a ‘glorificare la patria’. Fu un fiorire di titoli tra il commosso e il costernato. Anche il presidente del Coni Giovanni Malagò, considerato un progressista, dichiarò che «non riconoscere lo ius soli sportivo è qualcosa di aberrante». Perché se nasci in Italia da genitori italiani se normale, ma se nasci in Italia da genitori stranieri devi vincere le medaglie d’oro per meritare di essere italiano. Per caso sei nato a Dakar ma ti sei trasferito a Chivasso appena nato, dove sei cresciuto e ti sei formato? Normale che tu non sia italiano. Se diventi la persona più seguita al mondo si Tik Tok, allora la mancanza di cittadinanza italiana diventa un caso. 

Se la cittadinanza è una questione di followers su Tik Tok: Kabhi Lame, La Repubblica e il tweet di concessione dell’allora sottosegretario del ministero dell’Interno Carlo Sibilia

È successo a Kabhi Lame, la cui cittadinanza è diventata un caso solo per il traguardo social. Io, re di TikTok ma per il mio Paese sono ancora straniero titolava l’intervista dedicatagli da La Repubblica. Perché nel concetto di inclusività, il diverso fa notizia in quanto tale. La notizia non può essere la vittoria dell’oro alle olimpiadi o il più alto numero di followers sui social, ma perché è un diverso che vince l’oro o raggiunge il più alto numero di followers sui social. In quel caso sì che ti si “concede” di essere considerato come noi:  Caro @KhabyLame volevo tranquillizzarti sul fatto che il decreto di concessione della #cittadinanzaitaliana è stato già emanato i primi di giugno dal Ministero dell’Interno. A breve sarai contattato dalle istituzioni locali per la notifica e il giuramento. In bocca al lupo. Il tweet è di Carlo Sibilia, allora sottosegretario del ministero dell’Interno.

Paolo Maurizio Talenti, direttore creativo di Festival DiverCity: l’inclusione come nuovo approccio di colonizzazione 

«Siamo sicuri che l’inclusione sia uno strumento volto a permettere l’accesso agli strumenti di uno Stato di diritto?» si chiede Maurizio Talenti, direttore creativo di Festival DiverCity. «La mia impressione è che in realtà questa visione dell’inclusione possa essere identificata come uno degli approcci di colonizzazione in epoca post-coloniale. Un modo per richiedere al soggetto da includere il suo annullare la sua identità culturale. Parlare di inclusione oggi permette al progressismo italiano di sentirsi al sicuro quando parla  delle questioni legate alle differenze, che continuano a fare paura. Fa paura la manifestazione di queste differenze, quando invece l’unica cosa da fare sarebbe non solo riconoscerle, ma radicalizzare. Oggi c’è l’urgenza di manifestare le differenze in quanto tali, la favoletta del ‘siamo tutti uguali’ è pericolosa oltre che errata. Se per essere accettato devo annullare la mia differenza, significa che prima di quell’annullamento io resto ‘non degno’. È necessario ribaltare la questione: la normalità in cui io dovrei essere incluso non esiste, è solo – letteralmente – norma, regola. Una regola che oggi mostra tutta la sua fallacia».

Il paradosso dell’inclusività: la cultura italiana non può cambiare se non muta la struttura sociale, che però non evolve perché dominata da una cultura conservatrice

Qui si giunge al cuore del paradosso dell’inclusività: la cultura italiana non cambierà fin quando non cambierà la struttura sociale. Una struttura che resta decisa, oltre che dominata, da una cultura conservatrice, anche negli ambienti che professano tutt’altro, come per esempio i media. Parlando di gender gap, su 27 quotidiani solo 5 sono diretti da donne e di questi la stessa persona (Agnese Pini) ne dirige 3. Se parliamo di presenza di persone nere nelle redazioni – che vadano al di là dei collaboratori esterni – purtroppo non esistono studi o ricerche a riguardo, la ragione è semplice: il numero è talmente esiguo che non servono strumenti particolari per trovare un dato, basta una mano. Nulla cambia se si prende in esame la comunità LGBTQ o il tema della disabilità.

Gabriella Crafa, vice presidente dell’associazione Diversity: la tv italiana non rappresenta la diversità; neri, lgbtq+ e persone con disabilità sono invisibili 

«Il passo necessario non può che essere la cessione degli spazi» dice Gabriella Crafa, vice presidente dell’associazione Diversity. «In Italia non esiste rappresentazione che non sia quella della cosiddetta ‘norma’. 

Prendiamo la tv generalista ad esempio: non si vedono ancora conduttrici dichiaratamente lesbiche né conduttori o opinionisti neri o appartenenti alla comunità LGBT+. Le poche voci presenti rischiano di cadere in una facile strumentalizzazione, che le pone ai margini di una discussione all’insegna del ‘purché sia’.

La dinamica è simile a quella che porta a creare programmi in cui a parlare di temi di rappresentazione di genere sono solo uomini o donne esclusivamente cisgender; o a parlare di disabilità solo con i genitori o i parenti di persone con disabilità, mai con loro direttamente. Perché nel concetto italiano di inclusività è sempre e solo la norma a scegliere chi e come includere».

Andi Nganso, medico e fondatore di Festival DiverCity: l’ipocrisia della Carta dei Diritti dell’Uomo, la Doppia Assenza di Abdelmalek Sayad

La società italiana è disposta a cedere questi spazi? Se si guarda all’amata tradizione occidentale, no. Per comprendere infatti l’ipocrisia di fondo del paradigma dell’inclusione è necessaria una visione storica, che si concentri proprio sulla cultura occidentale. Come spiega Andi Nganso, medico e fondatore di Festival DiverCity: «Un esempio su tutti: quando è stata promulgata la Carta dei Diritti dell’Uomo, la maggior parte dei Paesi dell’Africa erano ancora colonie. Dobbiamo riconoscere che tutta la costruzione a favore dei diritti umani è stata fatta da e per l’Occidente, per i bianchi che da un lato scrivevano ‘Libertà’ e dall’altra si arricchivano con lo sfruttamento di terreni e popoli». Andi argomenta la sua posizione citando il sociologo franco algerino Abdelmalek Sayad e il suo testo Doppia Assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato: «Sayad spiega come la migrazione sia un fenomeno composto da una doppia natura, quella di emigrazione e immigrazione, e per questo rappresenta il fenomeno migratorio come ‘fatto sociale totale’. La persona nera, il migrante, è sempre ‘fuori luogo’, e per farsi accettare è sempre stato costretto ad annullarsi, diventare qualcosa di altro da sé. La società occidentale non concepisce la nascita di qualcosa di nuovo da quello che essa stessa è rappresenta». 

Il sincretismo culturale e l’esempio delle tradizioni afro discendenti

Questo diventa ancora più vero se si guarda invece a come le popolazioni colonizzate siano riuscite a creare culture e società nuove. Io – spiega Andi – sono originario del Camerun e sono madrelingua francese non perché questa fosse la lingua originaria del mio popolo, ma perché è stato voluto da un determinato percorso storico, violento e da condannare senza remore. In questa sede voglio far notare come nonostante la violenza cui sono state sottoposte, i popoli dell’Africa siano riusciti a creare qualcosa di nuovo. La totalità delle tradizioni afro discendenti che celebriamo oggi non sono ‘pure’, non sono quelle dell’epoca pre coloniale, ma sono qualcosa di culturalmente nuovo. Il sincretismo culturale è stato anche religioso: l’esempio più lampante è rappresentato dalle modalità con cui si professa il cattolicesimo nel continente africano.

Questo non può avvenire in Occidente, perché la sua cultura non è in grado di riconoscere il suo privilegio, e quindi è incapace di rinunciarvi».

L’inclusività in edizione limitata

Per concludere questo ragionamento rimando la pagina dedicata appunto all’inclusione della sezione di Workplace (piattaforma di Meta di ‘comunicazione aziendale all-in-one’). Qui l’inclusività viene consigliata alle aziende perché «ehi, è un modo friendly per essere più produttivi». Perché il Noi di cui parla Felice Cimatti valuta il paradigma dell’inclusività non rifacendosi non perché mosso dalla volontà di costruire spazi condivisi, ma rispetto alla produttività. Dalle campagne marketing alle “giornate del”, dalle prime pagine ai programmi in prima serata, dai post social dei media nativi digitali fino agli appelli costruiti ad hoc dal più in voga fra gli opinionisti/giornalisti/influencers –scritto così, perché ormai è una creatura mitologica, una sorta di Cerbero– tutto è ‘performativo’, anche l’inclusività. La realtà in cui siamo immersi, infatti, il privilegio lo riconosce ma non solo ha deciso non di rinunciarvi, ha anche creato uno schema per far credere che si possa accedere a questo privilegio: lo ha chiamato inclusività. Ma attenzione, si vende in edizione limitata.

Felice Cimatti

Scrittore e professore di Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. È tra i conduttori del programma radiofonico Uomini e Profeti di Rai Radio3, scrive per le pagine culturali del Manifesto.

Enrico Gargiulo

Professore associato in Sociologia generale all’Università di Bologna. Si occupa di trasformazioni della cittadinanza, politiche di integrazione dei migranti, appartenenze territoriali e saperi di polizia. È autore di L’inclusione esclusiva. Sociologia della cittadinanza sociale (FrancoAngeli, 2008) e Appartenenze precarie. La residenza tra inclusione ed esclusione (Utet, 2019), oltre a diversi saggi in volumi collettanei e riviste.

Andi Nganso 

Medico è fondatore nel 2018 di festival DiverCity, piattaforma di espressione artistica e di divulgazione socio culturale dedicata alla giustizia sociale e alla lotta contro il razzismo e tutte le forme di discriminazioni.

Paolo Maurizio Talenti

Direttore creativo festival DiverCity 

Gabriella Crafa

Vice Presidente di Fondazione Diversity, associazione no profit impegnata contro ogni forma di discriminazione e che fa cultura sul valore della diversità nel mondo dei media, delle aziende e nella società civile. Ha fondato Asap, società editrice digitale tra gli altri di TvSerial.it, il primo e più grande magazine italiano indipendente dedicato al mondo delle serie televisive. 

Giuseppe Francaviglia

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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