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La differenza totale tra design e decor: al di là di ogni militanza politica

Il buon gusto attuale ha eroso un’ortodossia che ha cominciato a sgretolarsi negli anni Settanta. Svanita la provocazione concettuale originaria – peggio ancora rischia di essere il complemento di un ‘décor chic’

Una breve storia del design

L’idea nucleare di design nasce e si sviluppa nei primi decenni del Novecento come antitesi nei confronti di qualsiasi accezione di décor. La meta da raggiungere era una griglia di modernità astratta e purista, privilegiando funzionalità, geometria e, possibilmente, la diffusione di massa. Ornamento è delitto, scritto dall’architetto razionalista Adolf Loos nel 1908, è la summa iniziale e il manifesto di questa dinamica radicale. In polemica con gli artisti della Secessione viennese, vedeva ogni ornamentazione in architettura come un plus inutile. Un eccesso da evitare concentrando l’attenzione sulla forma-funzione di edifici e spazi abitativi.

Il Bauhaus diviene scuola e punto focale per l’architettura e il design di marca razionalista e funzionalista. Stabilisce un momento fondamentale nel dibattito novecentesco intorno al rapporto tra tecnologia e cultura. Il Bauhaus di Gropius e Hannes Meyer era legato al contesto sociale. Con la direzione di Mies van der Rohe, nel 1930, la musica cambia. Alla scuola viene impresso un carattere più disciplinare, incentrato sul tema dell’architettura.

Mies stesso, profeta del less is more che viene da un apprendistato giovanile presso Max Fischer, specialista nello stucco d’interni, non è indenne da seduzioni decorative, specie nell’uso di marmi colorati accanto alle finestre a telaio d’acciaio e a un possente impeto di strutturalismo. La forma è davvero uno scopo? Non è piuttosto il risultato del processo del dare forma? Non è il processo essenziale?, si chiedeva Mies van per Rohe quando era direttore del Weissenhof. Per arrivare a capire che la forma come scopo porta sempre al formalismo. 

 Il design oggi – dagli anni Ottanta al Post-modernismo

Via tutto, cornici e cassettoni a soffitto, modanature e rilievi scultorei, set di mobili, sofà imbottiti e specchiere elaborate. Aboliti lambris, dorature e paraste, nonché i corridoi, a livello distributivo il vero suggello di un’ottica borghese del vivere la casa. Oggi il design d’arredo e gli oggetti d’uso del Ventesimo secolo – quei pezzi che si sono storicizzati, come repliche del Bauhaus, creazioni di Caccia Dominioni, di Magistretti, di Angelo Mangiarotti e Carlo Scarpa, oppure l’iconico Tulip table immaginato da Eero Saarinen nel 1957 – rappresentano il contrario della portata rivoluzionaria e paritaria che ne caratterizzava l’imprinting primario. Le certezze e i messaggi del Modernismo si sono incrinati nei nostalgici composit del postmoderno anni Ottanta. Per franare del tutto nel melting pot stilistico traboccante di contaminazioni e boutades tipico del meta-moderno.

Il design, sia d’antan o di produzione attuale, oggi è svuotato della provocazione e militanza concettuale e politica originaria. Peggio ancora, assurto a status-symbol, può essere il complemento di un décor chic. Vedi il caso di Jean Prouvé, comunista e amico dell’Abbé Pierre. La sua ‘architecture nomade’ paragonava una sedia a una casa. Comprendeva la conoscenza dei materiali a portata di mano, oltre alla collaborazione tra artigiani e artisti focalizzato sullo sviluppo tecnico. Per Prouvé vigeva il principio di non rimandare le decisioni in modo da non perdere la spinta né indulgere in previsioni non realistiche. Chissà che direbbe vedendo le sue spartane invenzioni impiegate nell’orditura di un salotto boho, miscelate a consolle Louis XV. O ai dipinti di Fontana e Castellani, o allo specchio di Kapoor che non può mai mancare in ogni dimora di un certo livello. 

Come inquadrare il design dagli anni settanta in poi?

La spigolosa poltrona a compasso di Pierre Jeanneret, cugino di Le Corbusier e sodale di Charlotte Perriand, nata come arredo a basso costo nel 1951 durante la genesi della città indiana di Chandigar, imperversa come un tormentone in qualsiasi redazionale o advertising di settore come referenza di gusto. Per non parlare delle collezioni imperniate su esemplari di oggetti e arredo numerati, firmata dai guru di un design sempre più intrecciato con l’arte e con il recupero di tecniche ancestrali riportate all’attualità. I Campana Brothers, Michael Anastassiades, Formafantasma, il riciclatore seriale Martino Gamper e un veterano come Enzo Mari.

Il buon gusto corrente ha eroso un’ortodossia, che comincia a sfaldarsi negli anni Settanta del Novecento, tramite soluzioni sofisticate e pop di Cini Boeri e Carla Venosta, mentre David Hicks trafficava con boiserie decapate, camini William Kent, tappeti optical e plastiche fluo. Difficile ormai capire a che ambito ascrivere questi métissages. Gio Ponti, come Franco Albini, oscilla sovente tra le due sponde; così come il lusso neo-ellenico di Jean-Michel Franck, principe dei decoratori e del parchemin; le stilizzazioni sui classici di André Arbus o il magistero di Marc du Plantier, tra bronzo dorato, porfido e perspex. 

Il successo di Lina Bo Bardi

Che dire della recente acquisizione a cult di massa di Lina Bo Bardi, progettista italiana e brasiliana d’adozione, antesignana di tematiche ora assai dibattute quali la sostenibilità, l’inclusione sociale, la condivisione della cultura e delle differenze o l’attenzione alle minoranze. Hakim Sarkis, curatore della diciassettesima Biennale di architettura di Venezia, le ha attribuito il Leone d’Oro speciale alla memoria.

Nella sua Casa de Vidro a San Paolo del Brasile, costruita nel 1950-51, calata in un contesto naturale opulento e aperta a tutto ciò che è etico e poetico, anche alle tempeste più selvagge e portata a contatto con i suoi pericoli, si respira un profumo bourgeois, una deriva salonnier forse dovuta agli oggetti d’arte inseriti dal marito antiquario. Sanculotti o no, decoratori o designer che siano, si tratta quasi sempre di personalità uscite dai ranghi della borghesia intellettuale europea o americana, quella classe pensante scomparsa di cui si sente la mancanza.

Design vs Décor: vogliamo ancora crederci? Interior design is the art and science of understanding people’s behavior to create functional spaces within a building, while interior decorating is the furnishing or adorning of a space with decorative elements to achieve a certain aesthetic. In short, interior designers may decorate, but decorators do not design. Siamo sicuri che questo assioma – la fonte è l’RMCAD’s Interior Design Program – sia del tutto da condividere, in un’epoca in cui le paratie e le classificazioni risultano sempre più fluide? Categorie e definizioni oggi si sovrappongono e precipitano in una cacofonia, in un’anarchia libertaria che tutto inghiotte e reinventa senza timori, esitazioni filologiche o tabù.

Una carrellata di designer contemporanei

Fermo restando che appartengono al décor Lady Mendl, il Louis XVII di Emilio Terry, la verve barocca di Dorothy Draper e Madeleine Castaing, dove possiamo collocare überdecorator come Mongiardino e Piero Fornasetti o, per tornare nel presente, l’indipendenza transepocale di Jacques Grange? Sono da considerarsi décor o design il lavoro di Francois Catroux, il Volledig fiammingo-zen di Axel Vervoordt, le stilizzazioni alchemiche del duo Sills Huniford negli anni Novanta e il minimalismo di Vincent van Duysen? Semantica ambigua pure quella della Miller House a Columbus, nell’Indiana, realizzata da Eero Saarinen per gli amici Xenia e Joseph Irwin Miller, i ‘Medici del Midwest’, nel 1957, con il contributo di Kevin Roche.

Qui la demarcazione tra design e decorazione si interfaccia in una geometria flessibile, spesso comparata alla Rotonda di Palladio per la sua modulazione e sacralità. Sconfina nel terreno dell’arte il classicismo espressionista e scavato che Cy Twombly dispiega nelle proprie residenze, a partire da quella canonica di via di Monserrato a Roma, immortalata dalle immagini di Ugo Mulas nel 1969-70. Idem per il castello di Montecalvello, dimora laziale di Balthus, persecuzione ideale dei suoi spazi pittorici sospesi ed ambigui. Neutra e Schindler negli USA sono stati imitati da epigoni infiniti, che ne hanno frammentato e indebolito il fervido credo Bauhaus che portavano con sé della Mitteleuropa. 

L’Ambasciata italiana a Brasilia di Luigi Nervi

Luigi Nervi, nell’Ambasciata italiana a Brasilia – 1971-77 – concepisce la versione contemporanea della grandeur di un classico palazzo diplomatico, innestandola su una foresta di tetrapodi in cemento. Rivisita il brutalismo con una sinuosità echeggiante di evocazioni. Rem Koolhas si permette un’esercitazione un po’ costumé nella Casa da Musica di Porto, terminata nel 2005, in un rapporto costante tra dentro e fuori che contrasta con l’impaginato decorativo fatto di tradizionali azulejos e mobili settecenteschi stagliati contro pareti di vetro corrugato. Marta Sala figlia del solco Azucena inciso da Caccia Dominioni e Ignazio Gardella a partire dagli anni Quaranta, si è affidata per l’avventura di Marta Sala Éditions agli architetti Lazzarini & Pickering, che hanno dato freschezza ai contenuti nodali di una borromaica sofisticazione bourgeois milanese. 

Paola Antonelli, Direttore della Ricerca e Sviluppo del MoMa

Il gioco di antinomie, di diversità e assonanze che si instaura tra design e décor è assai sottile e complesso nelle appartenenze e riconoscibilità. Dipende anche della credibilità o meno del committente, dalla rappresentazione sociale che si volge in un determinato ambito da vivere, dentro un recinto domestico o pubblico. Paola Antonelli, Direttore della Ricerca e Sviluppo del MoMa, con Applied Design, una reinstallazione delle collezioni che si fa una volta l’anno, sottolinea come ci siano molte forme di design, che non riguarda solo macchine e moda, ma anche design dell’interfaccia, dell’interazione e della visualizzazione. Secondo Antonelli un bravo designer è quello che non ha paura di sperimentare la tecnologia e che è dotato di un buon approccio tecnologico e chiarezza d’intenti. C’è chi si occupa di futuro e chi sperimenta. «Il designer che rifiuta di confrontarsi con la tecnologia – conclude Antonelli – ha molto da imparare».

Cesare Cunaccia

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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