Lampoon, Mashid Mohadjerin testimonia le donne in medio oriente
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Guerre e rivoluzioni sul corpo delle donne in Iran

Storia collettiva e ricordi di famiglia si fondono nel lavoro di Mashid Mohadjerin. La fotografa iraniana racconta il suo Paese in Freedom is not free

Le donne fotografate sembrano sfuggire all’occhio della fotografa

Sarà il velo – il tradizionale chador, lungo fazzoletto e mantello che copre capelli, corpo e delinea il viso delle donne iraniane. Donne nascoste da vegetazione, di spalle in fuga sotto una luce verde al neon – un gioco di riverbero della fallita Rivoluzione verde del 2009? «Per queste donne la sfera politica non può essere separata da quella personale: i loro corpi e la loro vita sono e continuano a essere influenzati dalla Rivoluzione», scrivono le curatrici Elena Vaninetti e Matilde Scaramellini nella presentazione che introduce il lavoro fotografico Freedom is not Free di Mashid Mohadjerin, artista belga e iraniana, in mostra presso Pananti Atelier. Mohadjerin tornerà a Milano il 2 e 3 aprile per tenere il workshop Picture in the closet, dedicato al disegno e alla scoperta del proprio archivio fotografico.

Lampoon intervista Mashid Mohadjerin

In Iran e nel Medio Oriente dilaniato da rivolte, guerre civili e fratricide La libertà non è libera e gran parte del lotta per il potere si gioca sul corpo delle donne. Mashid Mohadjerin ha condotto una ricerca estensiva, che ha nel medium fotografico la sua fine, ma coinvolge un aspetto anche teorico del suo dottorato all’Università di Anversa. «La mia ricerca è connessa a questo lavoro. Il mio dottorato si è concentrato sul corpo delle donne in Medio Oriente e sul modo in cui sono politicizzati nella resistenza e nella contro narrazione della stessa. Ho dovuto forzarmi ad arrivare alle conclusioni: le ideologie e i fenomeni politicizzati si sviluppano sulla pelle e sui corpi delle donne. Come l’imposizione del velo in Iran: è un simbolo riconoscibile dell’Islam ed è rappresentato attraverso i corpi delle donne», racconta la fotografa.

La Rivoluzione islamica in Iran nel 1979

Nel mondo, l’orologio dei diritti spesso non è sincronizzato sullo stesso fuso orario. Il 1979 è una data campale per le donne iraniane: in quell’anno l’avvento della Rivoluzione islamica ha cambiato per sempre la storia del Paese e di milioni di donne. Negli stessi anni il movimento femminista europeo raggiungeva la massima visibilità nelle piazze e nella politica. Il 1978 è l’anno della storica approvazione della legge 194 sull’aborto, che ha permesso alle donne di riappropriarsi del proprio corpo e della propria libertà. Oggi, in Italia come in altre parti d’Europa e del mondo, questo diritto è messo nuovamente in discussione. C’è un Iran prima della rivoluzione islamica, un altro dopo il 1979 e molti Iran nel mezzo, che corrispondono alla vita vissuta delle persone. 

Nel caso delle donne, un esempio letterario ma allo stesso tempo reale, è raccontato dal libro di Azar Nafisi Leggere Lolita a Teheran. L’autrice testimonia come la ribellione si svolga spesso nelle quattro mura domestiche e può assumere anche la forma di un gruppo di lettura formato da sole donne, lettrici ‘blasfeme’ di libri proibiti. Mohadjerin sembra testimoniare esperienze simili: «Penso che esistano lotte individuale a differenti livelli. Ci sono persone che sono aperte ed escono allo scoperto, come nel caso degli attivisti per i diritti umani o le piccole proteste di insegnanti che postano su Instagram lezioni di danza. Tra le quattro mura le persone tentano di trovare la loro libertà, in alcuni casi diventa di dominio pubblico e le donne si mettono nei guai, altre volte non succede nulla»

Il personale è politico

Uno slogan femministaIl personale è politico – entrato nell’uso comune grazie ai primi movimenti per i diritti e la liberazione delle donne, le femministe degli anni Settanta. Abbandonare la separazione tra dimensione pubblica e privata, personale, delle donne era il presupposto fondamentale per iniziare una rivoluzione: portare l’oppressione delle donne sulla scena politica e iniziare la lotta verso la riconquista di libertà e diritti. «Non avevo intenzione di fare un lavoro politico e di essere politica nel mio lavoro. Arrivo da un percorso di migrazione e asilo, è parte della mia vita come potrebbe succedere con altre tragedie nella vita di chiunque. È stato molto importante integrare questo aspetto nel mio lavoro. È quasi obbligatorio essere politici, anche quello che mangiamo ormai è politico», dice la fotografa.

La fotografia è responsabile nella rappresentazione delle ideologie

«C’è una responsabilità del fotografo nella rappresentazione di certe questioni. In Freedom is not free ho approfondito alcuni aspetti contemporanei dei movimenti di resistenza femminili. Li ho uniti a suggestioni dal passato per connettere tutte le storie». Il viaggio di ritorno di Mohadjerin in Iran inizia nel 2016 e continua fino al 2019, poco prima dell’inizio della pandemia. Si tratta di un viaggio di ritorno dopo un’assenza prolungata. Una storia comune di molti iraniani di ritornare a casa per ragioni legate alla loro carriera artistica, spesso vista come una devianza dal pensiero unico del regime. Per l’artista il ritorno in Iran, documentato anche in Freedom is not free, «è stato una riscoperta della mia vita precedente attraverso incontri. Ho pensato a mia nonna e ne ho parlato con sua sorella – la mia prozia, che è ancora viva. È stato un modo per tornare indietro. Mi considero una persona visuale, è il mio modo di comunicare e interpretare la realtà. Attraverso i collages ho immaginato il punto di vista di mia nonna».

Freedom is not free 

La ricerca insieme sociologica e antropologica sulle donne delle rivoluzioni si trasforma in ricerca personale. «Gran parte del mio lavoro e della mia ricerca si focalizza su persone che hanno un particolare ruolo in certe storie. In questo caso ho iniziato a scattare ritratti di persone che sono state parte della mia vita, in particolare la mia famiglia e i miei amici. Nel libro si vedono le mie cugine, mia zia, le mie parenti strette e lontane». Il libro d’artista, ultimo prodotto del lavoro di Mohadjerin è diviso in cinque capitoli temporali, realizzati a stretto contatto con il graphic designer . «È stata una collaborazione davvero importante per me. Per me la fotografia non finisce con le foto scattate, piuttosto con la selezione e con il processo di editing, che richiede molto tempo»

Nel percorso espositivo allestito da Twenty14 per Pananti Atelier, è proiettato un video di un gruppo di donne, in stato di trance, alle prese con una danza tradizionale. «Sono donne Sufi. Ho registrato questo esperienza perché mi ha liberato. È connessa alla rivoluzione a porte chiuse, cui accennavo prima. Si tratta di accettare, lasciare andare, perdere il controllo. È solo un momento che tutti desideriamo per lasciare andare e perderci. Ho trovato meraviglioso il fatto che queste donne fossero in un posto sicuro, libere di essere. È un lato nascosto dell’Islam e coincide con il misticismo».

Mashid Mohadjerin 

Fotografa di origine iraniane con base in Belgio, il suo lavoro esplora i confini tra arte e fotografia documentaria concentrandosi su ingiustizie sociali, identità e resistenza. Freedom is not free approfondisce il ruolo delle donne nelle recenti rivolte e rivoluzioni in Medio Oriente e oltre. Nel 2021 ha conseguito il Phd in Arts, il suo libro d’artista Freedom is not Free è la sua terza pubblicazione, vincitrice del Rencontres d’Arles Author’s Book Award.

Emanuela Colaci

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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