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Qual è la differenza tra uno stilista e un direttore creativo?

Craft, manualità, abilità tecnica – oppure cultura, coerenza e visione? Contano le domande, mai le risposte: una digressione sulla storia recente della moda

Hedi Slimane ha rielaborato, nel suo esordio per Celine, il suo lavoro per Saint Laurent e per Dior Homme

Hedi Slimane dà forma alla sua idea – che sia questa prodotta per Dior, Saint Laurent o Celine, lasciando poco spazio ai codici identificativi delle singole case. Che si possa trovare qui la differenza tra uno stilista e un direttore creativo? Anja Arankowsky Cronberg, direttrice della rivista Vestoj, parla di staged authenticity per definire un’autenticità che tiene conto in prima istanza del contesto e delle dinamiche sociali – ovvero, si può analizzare la differenza tra una creatività che rielabora i codici e i contesti, e una creatività di totale rottura con ogni attualità riconosciuta.

Nel 1955 Saint Laurent è assistente di Christian Dior, lavora al vestito indossato da Dovima nella foto con gli elefanti scattata da Avedon

Quando Dior muore nel 1957, Saint Laurent è nominato direttore creativo della casa. Le sue prime due collezioni rispecchiano l’estetica di Dior e ricevono consenso critico. La terza introduce uno stile beatnik ed è stroncata. Saint Laurent si ammala di nervi e riceve comunicazione del suo licenziamento nel 1960, mentre è al fronte a combattere per l’esercito francese nella guerra in Algeria. Con il supporto del suo compagno Pierre Bergé e dopo una causa a Dior che gli porta risorse lancia il suo marchio. A Saint Laurent si deve l’invenzione della fluidità di genere di cui oggi si parla, il tuxedo da donna, Le Smoking e la sahariana. L’avanguardia è portabile, il ready-to-wear esprime libertà sessuale e autodeterminazione femminile. Se a Chanel è riconosciuto di aver inventato il Ventesimo secolo per le donne, a Saint Laurent si attribuisce il merito di aver inventato la moda senza distinzione di genere, razza e colore: «Più la stampa criticava la voglia di provocazione di Yves Saint Laurent, più il desiderio cresceva», scrive Marilena Malinverni su queste colonne.

Valentino dichiarò che il suo archivio sarebbe bastato a creare collezioni per anni, ma quando nel 2008 Maria Grazia Chiuri e Pier Paolo Piccioli assumono la direzione creativa della maison il marchio appare imbrigliato nella sua formalità

Il lavoro di Piccioli e Chiuri trova una borchia presa in prestito dai punk, ingentilita dalla silhouette di una gonna lunga come quella delle principesse delle fiabe, poetica e casta quale lavoro di sartorialità romana. Maniche lunghe, scollature discrete, scarpe basse, polsini e colletti da collegiale. Pochi elementi e Valentino rinasce desiderabile, comprensibile anche dai giovani. Oggi Piccoli ha dismesso l’atteggiamento di quegli anni in coppia che allora era apparso inedito, per ricorrere ad alcune ripetizioni: in prima istanza le volumetrie e le abbondanze di Cristobal Balenciaga, in seconda l’ironia e quella dissacrazione che componevano l’atteggiamento di Saint Laurent. Così troviamo le stampa di Undercover su cappotti oversize stile Balenciaga. Magliette con la sigla VLTN, su scarpe rosa chiaro con borchie dorate. Un direttore creativo rielabora due stilisti.

Nel 2016 la direzione creativa di tutte le linee del marchio Calvin Klein sono affidate a Raf Simons

«Il più grande esperimento di re-branding della moda americana del Ventunesimo secolo», scrive Vanessa Friedman sul New York Times. Calvin Klein è un brand impresso nelle masse attraverso i jeans e la biancheria intima. L’immaginario collettivo era stato definito da un lavoro con struttura e strategia: campagne pubblicitarie con Kate Moss seminuda e con Kendall Jenner, le chat prese da Tinder e Grindr firmate Mario Sorrenti e Melanie Ward. La domanda su come potessero funzionare le nozze con un carattere intellettuale quale Raf Simons, figlio delle avanguardie di Anversa, pupillo di Linda Loppa, stilista contaminato dalla musica e dalle arti visive e performative, era legittima. In meno di due anni, le vendite crollano. La collaborazione con Slimane si interrompe e Calvin Klein decide di chiudere le collezioni di ready to wear, per concentrarsi sui mercati di largo consumo. Si può azzardare a dire che Simons sia uno stilista, prima di essere un direttore creativo?

Nel 1997 Marc Jacobs passa dalle camicie di flanella grunge alla direzione creativa di Louis Vuitton, brand di pelletteria già allora primo al mondo per espansione e fatturato

Jacobs si diverte a giocare con il monogram: stampe colorate e collaborazione con artisti, introducendo la speculazione contemporanea della civiltà mediatica stessa. Nascono il Monogram Multicolor, il Monogram Cherry Blossom e il Monogram Cerise – commistioni tra arte e brand. A settembre 2013, la sfilata di Jacobs per Louis Vuitton è una monocromia di nero. Tutti gli elementi che hanno caratterizzato le sfilate di Marc Jacobs per la maison – sedici anni – sono lì: i corridoi d’albergo, la giostra, le scale mobili dalle quali sono scese a suo tempo le modelle in completi optical-pop – ma è tutto nero. La stampa nota come nessun look sia presentato insieme a una borsa, un dettaglio forse di provocazione alla strategia commerciale. La sfilata si intitola Fade to black: sparire. Sarebbe forse stato opportuno prestare più attenzione all’ultima uscita di Edie Campbell, non tanto alla scritta ‘I love Paris’ sulla sua body-suit quanto alle catene e alle manette che la avvolgono interamente. Marc Jacobs e Louis Vuitton si lasciano di comune accordo e Jacobs potrà così dedicarsi al suo brand, parte di LVMH. Poco tempo dopo, riporta Business of Fashion, Jacobs dichiara di «non capire più quello che vuole la gente». Lo stesso articolo riporta anche un’opinione condivisa dai critici, ovvero che il brand abbia bisogno di una forte direzione creativa che renda la visione di Jacobs fruibile all’ufficio stile. L’ex direttore creativo di Louis Vuitton avrebbe bisogno di un direttore creativo per se stesso?

Da Tom Ford ad Alessandro Michele: Gucci

In questa digressione volutamente non esaustiva, tutto non può che portare alla considerazione del caso Gucci. Prima di arrivare ad Alessandro Michele, è giusto partire da Tom Ford. Texas e il glamour di Los Angeles e la Pop Art di New York, nel 1988 Ford è alla direzione del design di Perry Ellis, sotto la supervisione di Marc Jacobs. Due anni dopo si trasferisce in Italia e va a lavorare da Gucci. Dopo soli sei mesi a capo della linea donna diventa responsabile anche dell’uomo e degli accessori. Come ricorda Sarah Mower di Vogue, in quegli anni l’ufficio stampa di Gucci poteva avere difficoltà a invitare i giornalisti alle sfilate. Nel 1994 il pubblico impara il nome di Tom Ford che porta da Gucci lo scandalo. L’estetica degli anni Novanta: gli abiti bianchi e sensuali del ’95, la sfilata del ’96 con i vestiti neri cortissimi per le donne e i completi attillati e lucidi per gli uomini, i perizomi che sbucano dai pantaloni. Un’estetica che Ford porta fuori dalla passerella, nelle campagne pubblicitarie, nelle collaborazioni con Carine Roitfeld e Mario Testino. Dopo dieci anni sotto la direzione artistica di Ford, Gucci vale miliardi. Lo stilista è lo stesso di quando i giornalisti erano pregati di andare alle sfilate.

Il sesso di Ford e l’arte di Michele appaiono antitetici, pur richiamando entrambi gli anni Settanta: Ford lo Studio 54, Michele le sottoculture

Michele usa citare Ford: nella sfilata autunnale del 2015, la modella Molly Blair indossa una camicia verde petrolio in satin, pantaloni neri e una cintura con la doppia G – emblema dell’era Tom Ford quando dieci anni prima Kate Moss indossava lo stesso completo. Il genderless visibile nelle sfilate di Michele riprende in chiave contemporanea l’androginia che caratterizzava il lavoro di Ford: la campagna del ‘96 mostrava Georgina Grenville e Ludovico Benazzo abbracciati, con addosso due completi gessati uguali – oggi Michele fa sfilare modelle eteree e modelli efebici con i capelli lunghi. Ciò che accomuna i due creativi – stilisti o direttori – è la visione del marchio: oltre la moda, propongono ideali e comunicano attraverso i canali possibili – dalle boutique templi del minimalismo ai tempi di Ford, boudoir massimalisti nell’era Michele, al packaging alla scenografia delle sfilate. Funzionava vent’anni fa, funziona oggi. Michele lavorava per Gucci da tredici anni prima di assumerne la direzione creativa, Ford da quattro.

Alessandro Michele si propone per la direzione creativa di Gucci con un moodboard senza immagini di vestiti

È il 2014, Frida Giannini, direttrice creativa del marchio dal 2009, ha lasciato. Alessandro Michele lavora per Gucci dal 2002, prima sotto Tom Ford, poi a fianco di Alessandra Facchinetti e poi come associate creative director di Frida Giannini. È anche alla direzione creativa di Richard Ginori – acquisita da Gucci e oggi parte del gruppo Kering dal 2013. Il direttore del gruppo, François-Henri Pinault, ha raccontato a Business of Fashion la storia dell’avvento di Michele da Gucci, partendo proprio dal fatto che l’azienda aveva bisogno di innovazione poiché il suo storico dna non bastava più a sostenerla. A questo scopo, Pinault aveva nominato un nuovo CEO, Marco Bizzarri. Bizzarri e Pinault erano concordi sul non volere un nome conosciuto alla guida di Gucci.

Bizzarri incontra di persona i vari membri del team, tra i quali Michele, che gli comunica il suo interesse per il ruolo. Al colloquio con Pinault, Michele parla di tutto tranne che di vestiti e accessori. Racconta quello che gli piace, cosa lo emoziona. Ha una conoscenza enciclopedica del marchio. Quando Alessandro Michele è nominato direttore creativo manca una settimana alla sfilata maschile. Il mondo della moda ha una sola domanda: Alessandro chi? Invece di riprendere la collezione già creata da Frida Giannini, Michele decide di ricominciare da capo: crea una collezione – trentasei look – in cinque giorni. Gli ultimi due li usa per organizzare la sfilata. Dell’eleganza patinata messa a punto da Tom Ford e poi portata avanti da Frida Giannini non rimane traccia. Pinault racconta di un’esperienza che ha cambiato la sua idea di direzione creativa: «Le persone rimangono intrappolate nel tentativo di riprodurre quello stesso dna: un marchio di per sé non è uno stile, ma è fatto di simboli, di icone». Il fatturato di Gucci aumenta del 44%. Un universo di cyborg e intellettuali vittoriani. Alessandro Michele ha chiaro quello che gli piace e decide che possa piacere al resto del mondo. La sua strategia sta nel creare rottura, e nel comunicarlo. Marchio, museo, ristorante, podcast, Jared Leto, Lana Del Rey, Florence & the Machine e William Blake. Tutti vogliono le chunky sneakers di Gucci. Tutti vogliono essere Gucci.

Sara Kaufman

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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