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Del mio meglio n. 8, 1985, Mauro Balletti – Lampoon Issue 10
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Mina resta un riferimento per la moda: dai caroselli di Piero Gherardi a Gucci di Sabato De Sarno

Mila Schön diceva che non le importasse degli abiti, ma Mina ispirava ogni moda. Ancora nel remix di Mark Ronson nello show Gucci di Sabato De Sarno: sul sipario di inchiostro nero, il graffio erotico di Mina

Ancora di Mina usciva nel 1978; Sabato De Sarno chiude lo show SS24 Gucci con il remix di Mark Ronson

Ancora, Ancora, Ancora. La voce calda dagli orli rauchi di Mina emerge dall’oscurità che inghiotte la passerella. Ancora si staglia come una promessa. Fluisce sul vuoto che ha cancellato ogni concetto e parola ulteriore. Non c’è bisogno d’altro. Svanisce la traiettoria dell’ultima modella nel finale dello show Gucci S/S 24. Sul sipario teso di inchiostro nero resta solo il graffio erotico della Tigre di Cremona, libero e incontrastato, iconico e sospeso come non mai. Il remix del britannico Mark Ronson, voluto dall’amico Sabato De Sarno forse inaugurando una nuova partnership artistica, sceglie un inizio elegiaco dalle rotondità sinfoniche e arrotondate. Filtra quel pathos rovente che, sui lyrics spudorati e camp di Cristiano Malgioglio, aveva ordito l’autore della musica originale del pezzo, Gian Pietro Piter Felisatti. 

Quando la canzone esce nel 1978 scoppiò uno scandalo, intervenne la censura e molte radio rifiutarono di programmarla. Mina non era nuova a provocazioni simili. La sua carriera è costellata di episodi come questo, fanno parte del suo epos esagerato. Scende il sipario sullo show d’esordio di Sabato De Sarno da Gucci e ancora, ancora è il refrain ossessivo, prepotente, disperato ed esplicito di un impossibile appagamento che cerca una catarsi. Una parola come mantra, ripetuta, scandita con rabbia e timore, derive di dolcezza e abbandono, invocazione perentoria e sfumata. Tutto e il contrario di tutto. Una litania esplicitamente sessuale e ingorda, incontenibile come i cerchi concentrici provocati da un sasso scagliato su una superficie d’acqua immota.

Mina e la moda: gli abiti non le interessavano, affermava Mila Schön, eppure resta un riferimento

Mila Schön vestiva spesso Mina nell’âge d’or degli anni Sessanta e affermava che a non le importasse niente degli abiti che avrebbe indossato. Era talmente immersa nella musica e nel suo mondo che non se ne curava per niente. Mina resta un riferimento per la moda, frequentata con assiduità e facoltà di reinvenzione sperimentale. Basti pensare alla serie dei caroselli Barilla, messi in scena da Piero Gherardi nel 1967 in location insolite e folgoranti, quali le architetture littorie dell’EUR a Roma o il grattacielo Pirelli. Non si può dimenticare Mina che intona l’impervia e trascendentale struttura di Se telefonando.

Evergreen del 1966 che incrocia il compositore Ennio Morricone con i lyric del duo Maurizio Costanzo – Ghigo De Chiara, avvolta in un groviglio di cavi telefonici, misterica e quasi klimtiana sul tetto della stazione di Napoli Centrale ancora in costruzione. La sua voce echeggiante di sonorità metalliche ne L’ultima occasione, sullo sfondo di un arcadico paesaggio fra Poussin e Pasolini e delle rovine di un ponte a Tor di Nona. Infine, la Mina-geisha di Ebb tide. Atemporale. In fluttuante kimono off-white e smisurato ventaglio che ondeggia come una farfalla pop sul molo di cemento industriale della spiaggia deserta davanti agli stabilimenti dell’Italsider di Bagnoli, oggi non più esistenti.

Mina, alias Mina Anna Mazzini. Lombarda, nata a Busto Arsizio il 25 marzo 1940

Totemica e carica di significazioni, catalizzatrice di risvolti simbolici e di onirismo, di messaggi e di presagi universali – l’hanno chiamata la Tigre di Cremona. In ambito pop e camp, Mina costituisce una semantica a parte. È la maga dal gesto sinuoso, astratto e imprendibile tracciato nell’aria. È la pioggia di marzo e madama Doré. È un gioco di specchi e un sortilegio allegorico tra sincerità e mistificazione. Mina, alias Mina Anna Mazzini. Lombarda, nata a Busto Arsizio il 25 marzo 1940. Cantante, conduttrice televisiva, attrice e produttrice discografica – recita l’enciclopedia più attuale. Ruggenti gli esordi padani in balera appena adolescente col nome di Baby Gate tra gli urlatori sul finire degli anni Cinquanta, mentre esplode come una bomba la morgana del boom economico (si esibiva nelle balere del cremonese con la sua prima band, gli Happy Boys.

Fu il titolare della Italdisc, Davide Matalon, a metterla sotto contratto dopo averla ascoltata a Casteldidone – ndr). Grazie alla sua voce Mina attraversa con il vento in poppa oltre mezzo secolo di storia italiana e seguita, anche nascosta dietro le quinte di una privacy invalicabile, a esercitare un regale dominio sull’intero immaginario del Bel Paese. Dell’Italia e delle sue infinite contraddizioni, Mina, in una sorta di ossimoro profetico, è il suggello e insieme l’antitesi. Popolare e sofisticata, romantica e femminista. Libera, incurante dei clichées e del perbenismo, assomma provocazione e indipendenza, metempsicosi e slancio di futuro. Per paradosso è insieme signora borghese appartata dalla placida vocazione casalinga e ragazzaccia geniale.

Mina: icona gay e ispirazione per la il mondo della moda, rinunciò alla carriera internazionale dicendo no a Frank Sinatra che la voleva in America

Ribelle, bizantina e icona gay. Infaticabile. ispirazione per la moda, in fourreau nero e catenina d’oro, sul palco fino alla catarsi e alla consumazione di sé, forse in fondo capricciosa e pigra. Ha rinunciato a una carriera internazionale, dicendo di no a Frank Sinatra che la voleva in America (si dice, per l’invincibile paura che le incutono gli aerei). Onnivora nel repertorio. Poliglotta, ha inciso dischi in spagnolo, portoghese e inglese, in turco e in giapponese, vedi il manga-song Sette mari, di modernità metafisica. Ha cantato in napoletano, indimenticabile la sua criptica e sommersa versione di Sciummo di Concina e Bonagura. E in genovese. Ha sconfinato nel sacro. Flirtato con il diavolo in persona e inneggiato a una mica tanto arcana robina qua scatologica con divertito humour bambinesco e vagamente snob. La galleria dei suoi successi non finisce mai. La sua discografia si frantuma in mille riflessi e seduzioni, spalanca file onusti di ricordi ed emozioni. Calzante, immancabilmente. Sentimentale e mélo. Carica di suggestioni e interrogativi. Vera e fictional.

I testi delle canzoni e i duetti –  Mina, suo malgrado, è diventata il fil rouge e lo specchio ustorio di vizi e virtù italiote

Parole parole – Mina in un rimpiattino implacabile con Alberto Lupo. Il sognante ottativo di E se domani. La trama onomatopeica e fiabesca delle Mille bolle blu. L’ivresse cristallina e l’ardua escursione di note in scala dal basso all’alto e viceversa dell’impareggiabile Brava. Poi, le atmosfere sessuali esplicite e l’allusione orgasmica de L’importante è finire. La struggente e conflittuale Bugiardo e Incosciente di Paolo Limiti. NeveVivereVolami nel cuore, remake di Samuele Bersani e di Manuel Agnelli. I duetti con il vecchio amico Adriano Celentano. Capace di mille virtuosistici funambolismi vocali, proprio come una divina creatura transgender uscita dai fasti dell’opera barocca, Mina, suo malgrado, è diventata il fil rouge e lo specchio ustorio di vizi e virtù italiote, in un divampante falò di tic e vanità, in un vortice opulento di pura rappresentazione.

Mina, il successo e il ritiro dalle scene

Un cocktail di imprevedibilità e delirio divistico che sfiora sfere mistiche e kabuki, che polverizza l’aggregante kermesse canora del Festival di Sanremo, tormentone che ogni anno, come un vaticinio, ci regala un differente ritratto della nazione. Mina che imbroccava le registrazioni al primo colpo, sicura, senza esitazione alcuna. Mina che ha capito tutto. Medianica pitonessa del vinile ha previsto in largo anticipo la valanga di greve volgarità che avrebbe travolto tutto quel mondo televisivo patinato, rarefatto e in fondo ingenuo. Tutta quella garbata e gloriosa definizione di star system che le apparteneva. Si è portata via.

Si è votata a un’esistenza di donna normale, consegnandosi però a un’aura mitologica quando, nel 1978, come una Greta Garbo nostrana, si è sottratta alle scene celandosi dietro le pesanti cortine purpuree della sua stessa leggenda. Volatilizzandosi del tutto dai media, da quel piccolo schermo di cui nella magica stagione tra i Sessanta e i Settanta catodici ormai sdoganati pure da Francesco Vezzoli, è stata l’incontrastata regina del sabato sera. Mina si è trasformata in luminoso fantasma dalle manifestazioni cruciali. Attesissime, proprio perché diverse. Sideralmente opposte nel senso e talvolta mirabilmente kitsch, permettendo che soltanto le grafiche e le fantasiose rielaborazioni del suo volto per le cover, in particolare di Tallarini e di Balletti, fossero il luogo della celebrazione e del pubblico riconoscimento del suo verbum.

Milleluci, l’ultimo varietà italiano in cui Mina divideva la conduzione con Raffaella Carrà – poi il ritiro dalle scene nel 1978 a Viareggio 

«Non conosce vergogna, ha proprio cantato di tutto, povera ragazza», sibilava di recente e malignamente una sua scorata collega, antica compagna di battaglia ancor oggi in attività. È proprio questa la forza di Mina: l’aver cantato tutto e di tutto. Quasi con sconsideratezza dégagé. Con orgogliosa e infantile impudenza, trasformando ogni hit in un qualcosa che appartiene solo a lei e che si trasfigura in una dimensione altra. Ogni tanto scopri una canzone che ti era sfuggita. Come quel piccolo incalzante gioiello estivo scritto da Augusto Martelli, Noi due, che è quasi la sinopia di una sceneggiatura di Godard o di un film di Antonioni.

Risale al 1974, lungo la collana delle puntate tematiche di Milleluci, regia dell’insuperato maestro del genere Antonello Falqui. Milleluci, l’ultimo grande varietà italiano in sublime bianco e nero, in cui Mina divideva la conduzione con un altro mostro sacro d’ogni generazione, Raffaella Carrà. Specie la sigla finale, Non gioco più, dove magrissima, quasi emaciata, elegante come non mai, con acconciatura un po’ Marella Agnelli e pesante trucco espressionista degno della Lulu di Pabst e della prima Marlene Dietrich, tra lurex e piume, aspirando fumo da un lungo bocchino, recitava non senza ironia il ruolo di cinica femme fatale. Il refrain, annoiato e ipnotico, magari già preannunciava il suo imminente ritiro, avvenuto appunto nel 1978 e reso memorabile dai 14 recital d’addio sold out alla Bussola di Viareggio. Antonello Falqui, grande ermeneuta del sabato sera della RAI monocanale, l’aveva capito subito di che pasta fosse fatta la signora Mazzini.

Nel 1964 la dovettero richiamare a furor di popolo perfino dopo l’esilio per la nascita del figlio Massimiliano avuto dal bel tenebroso Corrado Pani, attore sposato e fedifrago, fatto che produsse enorme fragore di scandalo e pruriginosa curiosità nell’Italietta bigotta e perbenista di allora. La TV era controllata da una censura inquisitoria, che paludava le prodigiose gambe delle gemelle Kessler in spessi e castigati collant neri, temendone gli effetti peccaminosi. (La storia con Corrado Pani non rimane l’unica che Mina sceglierà di vivere secondo le proprie regole. Nel 1970, a pochi giorni dal primo incontro con il giornalista Virgilio Crocco, il più classico dei colpi di fulmine si trasforma in un matrimonio lampo. Nasce la seconda figlia, Benedetta – ndr).

Le canzoni di Mina e il legame con Lucio Battisti: lo spettacolo al Teatro 10

La quinta puntata di Teatro 10 entra nella storia della televisione italiana per i nove minuti in cui Mina – abito nero lungo e maniche trasparenti, chioma fiammeggiante e leonina – e Lucio Battisti dividono il palco e il repertorio. Le prove non erano andate bene, con la band di Lucio arrivata da Roma in treno per risparmiare sul volo e che, per la stanchezza, non riesce a trovare il giusto feeling sul palco. Adriano Celentano, che era nei paraggi con l’orecchio teso, ironizza: «Oh, se vi serve qualcuno io sono qui» – ndr). Mina, come nessuno, ha saputo cambiare di continuo, entrando e uscendo da estetiche, da generi e da ruoli musicali. Surfando tra le attese e le esigenze di un consumo di massa e di una ricerca personale punteggiata da interpretazioni epocali e cult da brivido.

Cesare Cunaccia

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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