Bob Marley, San Siro, 1981
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Zimba: il locale che ha introdotto la cultura africana in Italia – il racconto di Riccardo Vitanza

Allo Zimba del Gratosoglio si mescolavano culture e classi sociali, erano gli anni dell’immigrazione, Milano era curiosa. Riccardo Vitanza racconta il club e la sua musica

Lo Zimba in via Gratosoglio, Milano

Al civico 108 di via Gratosoglio, Milano sud, dove la città sta per finire, oggi c’è una palazzina rosa a due piani, qualche appartamento e una pasticceria a gestione familiare. La strada affaccia sul Lambro meridionale che corre verso Milanofiori. Oltre, i campi – non è un luogo di passaggio, chi ci capita deve abitarci, o avere qualcosa da fare. La notte, poco più di trent’anni fa, quel posto era uno dei più affollati di tutta la città. Nel 1986 due ragazzi eritrei, Walter Rizzi e Steve Bonaiuti, insieme a Francis Bisson, dal Camerun, affittano un vecchio palazzo semi abbandonato con un parcheggio sterrato davanti e aprono un locale per far musica. Nasce lo Zimba, primo club di world music in Italia. All’interno, due pugni neri sulle pareti bianche a spezzare le catene dell’Apartheid.

Poi «colonne, un palchetto, dipinti etnici e graffiti colorati, il bar, il dj, le ballerine, la pista da ballo. Tono dimesso, era un locale roots», ricorda Riccardo Vitanza, che per lo Zimba lavora curandone la comunicazione, negli uffici delle cantine al piano di sotto, «tra un topo e una pantegana». Vitanza, eritreo trapiantato in Italia a 11 anni, entra nel team del locale prima gestendo la rivista musicale Zimba magazine e creando i volantini promozionali per i concerti, poi – quando la moglie di Rizzi lascia l’impiego – prende il comando dell’ufficio stampa. 

Discoteche anni Ottanta a Milano: Lo Zimba

Lo Zimba diventa presto centro di una nuova cultura milanese. La città si va aprendo via via a contaminazioni esterne un tempo considerate prerogativa di Paesi e atmosfere lontane, estranee all’Italia. «Il momento di esplosione dello Zimba è stato tra l’88 e l‘89», racconta Vitanza. «Lo spazio, piccolo, era sempre pieno. Mille persone a serata, e mille fuori che tentavano di entrare. Si suonava musica africana, reggae e poi anche latino-caraibica. Il reggae era già conosciuto in Italia. Bob Marley aveva suonato a San Siro già nell’81. La novità erano i suoni afro, quell’incedere lento ma allo stesso tempo veloce, ritmato. Erano anni di fermento, la gente si voleva divertire. Giovani, adulti, uomini, donne, bianchi, neri. Si mischiava l’alto e il basso. L’intellettuale, lo sbandato, lo spinellaro. Venivano i calciatori, i campioni del Milan. Ruud Gullit, Rijkaard e Weah, che facevano da volano e attiravano il grande pubblico. Gullit -olandese originario del Suriname- fondò anche un gruppo, i Revelation Time, insieme a Rizzi. Per gli italiani entrare allo Zimba significava respirare aria nuova, approcciarsi a una cultura fino ad allora confinata in poche pagine studiate sui libri di storia»

La cultura afro in Italia

Fuori dal locale, oltre a chi non riusciva a entrare, c’erano i giornalisti. Prima arrivano i giornali locali, poi i nazionali, poi le radio e le televisioni. Ricorda Vitanza: «Erano gli anni in cui i flussi migratori a Milano, e in Italia, diventavano più cospicui. L’Africa era ancora vista come un qualcosa di estraneo, nelle pubblicità televisive l’africano era una caricatura, il nero con l’osso. L’Italia in quegli anni era un Paese razzista, nel senso che ignorava: non si conosceva niente della cultura africana. Intanto si ingrossavano le comunità di etiopi, eritrei, senegalesi, nigeriani. Qualche gruppo di italiani, che poi diventarono molti, volevano scoprire. Erano curiosi. La Rai e i canali che poi diventarono Mediaset producevano dossier e speciali sulla musica africana, Radio Popolare aveva una rubrica dedicata. Alla valutazione musicale si associava quella socio-culturale. Quanti sono i neri in Italia? Cosa fanno? C’era il desiderio di saperlo».

I cantanti africani in Italia

Se per i milanesi lo Zimba era una corsa alla novità, per le comunità dei Paesi africani già trapiantate in città era il posto dove risentire i suoni di casa. «In quel piccolo locale in fondo alla periferia si esibivano artisti che in Africa erano idoli, musicisti e attivisti», dice Vitanza. Manu Dibango dal Camerun, i Tourè Kunda dal Senegal, Cheb Khaled dall’Algeria. E ancora, dal Sudafrica Johnny Clegg, dal Mali Salif Keïta, dalla Nigeria Fela Kuti, dalla Costa d’Avorio il re del reggae africano Alpha Blondy. Nomi, fino ad allora sconosciuti ai più, che da quegli anni iniziano ad avere vita commerciale anche in Italia. I loro album non sono più nicchia d’importazione. Lo Zimba cresce, organizza tour ed eventi. L’onda di quella che genericamente è ancora chiamata world music, raggruppando tutti i suoni esotici per l’orecchio occidentale, si espande e arriva a Roma, Bologna, Napoli, Firenze. 

Milano crocevia di culture

Lo Zimba non era un locale per neri. Lo sottolinea più volte Vitanza: «non si ghettizzava nessuno. Nascevano storie d’amore. Non discriminava religioni o orientamenti sessuali. Era un volano d’identità culturale. Un meticciato che si spingeva oltre la musica. All’italiano piaceva perché ti imbattevi nello scultore, nel poeta, nel parrucchiere, nell’architetto africano. Imparavi come si fanno i dreadlocks, conoscevi le poesie di Senghor, gli scritti di Tahar Ben Jelloun». L’impatto dello Zimba, dice Vitanza, è stato quello di aprire definitivamente le porte alla cultura del Continente nero in Italia, ben al di là della musica. Vanno in stampa riviste specializzate: ‘Soul Makossa’, magazine musicale con lo stesso nome di un brano di Manu Dibango; ‘Nigrizia’, il mensile dei missionari comboniani dedicata al continente africano e agli africani nel mondo; ‘Africa’.

Nel’91 nasce il Festival del Cinema Africano di Milano, apre il Centro Studi Archeologia Africana. In Porta Venezia – il quartiere non era ancora la kasbah etiopico-eritrea di adesso – iniziano ad aprire ristoranti africani oggi scontati nelle grandi città. Per Vitanza, gli anni dello Zimba sono quelli in cui Milano si apriva in generale al nuovo, al diverso, all’etnico, anche non africano: «gli abitanti di via Padova non erano in prevalenza arabi, Chinatown non si chiamava ancora così, i ristoranti brasiliani e argentini dovevano nascere, i locali di musica ecuadoriana non erano così diffusi». Anche lo sviluppo della cultura sudamericana e giamaicana a Milano è passato per le stanze dello Zimba, dove, ricorda Vitanza, «si sono esibiti Tito Puente, i The Wailers, Rastaman Levi, gli Inner Circle».

La fine dello Zimba

Nel 1990 lo Zimba ha iniziato a disgregarsi. «L’esperienza è finita per mancanze organizzative. Girava denaro e c’era bramosia. Il proprietario dell’immobile dove era stato fondato il club un giorno decise di cacciare tutti. Non gli si poteva dire nulla, lo Zimba era in affitto. Se si fosse comprato il locale, forse sarebbe andata diversamente. I soldi sono stati spesi in altri modi. Fela Kuti viaggiava con ventisette mogli e se veniva a suonare allo Zimba gli si affittava un hotel con ventisette stanze, più quelle per l’entourage. Le finanze svaniscono, la magia si perde, perché nel frattempo l’onda d’urto della novità si era anche esaurita, la cultura africana e quella latina erano entrate a far parte della società», dice Vitanza.

Non sono mancati tentativi di replicare l’esperienza, che però non hanno raccolto lo stesso entusiasmo con cui era stato salutato lo Zimba alla sua nascita. Fu aperto un altro Zimba a Suzzara, in provincia di Mantova. Sempre a Milano poi, racconta Vitanza, Rizzi partecipò all’esperienza del Pata Mata’s, nato prima come one-night e poi come locale a sé, «ma non era un locale roots, come lo Zimba, lontano dal denso agglomerato urbano. Era in una balera, un posto già esistente, dove si esibivano artisti rock. Lo spirito del Gratosoglio, l’atmosfera hippie e comunitaria non c’erano più. Tra lo Zimba e il Pata Mata’s c’è stata l’esperienza del Prego di via Besenzanica, anche questo storico palco per il rock a Milano, che fu rivisitato riprendendo gli stilemi dello Zimba». Oggi, secondo Vitanza, un’esperienza simile avrebbe l’effetto opposto avuto di quello che lo Zimba portò al tessuto sociale: «un locale meramente africano rischierebbe di diventare un ghetto. Non richiamerebbe più tutto quel pubblico italiano, la voglia di mischiare culture e sudore non c’è più, perché, anche se non è scomparso il razzismo, per la maggior parte delle persone la differenza tra culture si è appianata, è stata metabolizzata ed è parte della normalità».

Riccardo Vitanza

Nato in Eritrea, arriva a Roma negli anni Settanta. La famiglia viene trasferita dallo Stato a Frosinone, poi si sposta a Milano. Studia legge ma inizia a lavorare come copywriter per mantenere la famiglia. Dopo lo Zimba, come freelance, promuove i concerti dei Ramones, Blur, i Cranberries, Jamiroquai, Public Enemy e Ice Cube. Nel 1990 fonda l’agenzia Parole e Dintorni, con cui ha curato l’ufficio stampa -tra gli altri- di Francesco De Gregori, Zucchero, Giorgia, Arisa, Ligabue e Renato Zero.

Giacomo Cadeddu

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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