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Poala Mattioli con la sua macchina fotografica, autoritratto
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Paola Mattioli: non ci interessano le belle fotografie, ma quelle buone

Gli inizi con Mulas, le foto a Ungaretti e agli operai, il femminismo – conversazione con Paola Mattioli, mentre esce il suo volume L’infinito nel volto dell’altro. Sul ritratto fotografico

Paola Mattioli, L’infinito nel volto dell’altro. Sul ritratto fotografico (Mimesis)

Incontro Paola Mattioli nella sua casa-studio in zona Cadorna, a Milano, con vista su Parco Sempione. Mi sta aspettando insieme a Francesca Adamo, curatrice della collana Sguardi e visioni di Mimesis dedicata ai fotografi, e del suo libro L’infinito nel volto dell’altro. Sul ritratto fotografico. Mentre brindano al libro appena uscito, con un po’ di vino bianco e un aperitivo ispirato a Virginia Woolf, focaccine farcite con cetriolo e pasta d’acciughe, raccontano il frutto di questa collaborazione. «In questa collana abbiamo pensato di far parlare i fotografi, con un  formato tra testi e immagini» spiega Adamo. Le fotografie più significative si mescolano ai ricordi legati alle immagini.

Mattioli contro le immagini ‘belle’: il gioco tra Berengo Gardin e Mulas e le immagini ‘buone’

La riflessione con cui Paola Mattioli propone di iniziare l’intervista è quella contro le ‘belle immagini’. «Le belle fotografie non ci interessano. Ci interessano le buone fotografie: mi riferisco alle ultime pagine del libro in cui riporto un gioco tra Gianni Berengo Gardin e Mulas, usando la loro terminologia. Mulas spiegava che a contare erano le buone fotografie, quelle con contenuti eccezionali. La domanda da fare a un professionista è: cosa vuoi dire con questa fotografia? Questa da sola spesso ci dice molto poco. A meno che non sia una foto di attualità e di cronaca, ma questo tipo di reportage ‘veloce’ è stato soppiantato dai cellulari»

Gli esordi di Paola Mattioli, il viaggio in Russia e la fotografia alla tomba di Krusciov

Il lavoro di Paola Mattioli è sempre stato basato su qualcosa che va al di là dell’istante o della destinazione giornalistica, un aspetto su cui ha riflettuto fin dagli inizi della carriera, a partire dal viaggio a Mosca con la madre, nel 1971. «Quando sono partita si era appena saputo che era morto Krusciov. Qualcuno mi ha suggerito di andare al cimitero di Novodevichy, lì ho fotografato la sua tomba, ricoperta da fiori. Avrei potuto inviarla per farla inserire nel circuito delle notizie, ma mi interessava di più accostare quella foto a quella dei bambini fuori dal cimitero che portavano con sé i fiori. Non volevo diventare una reporter, né mi ritenevo in grado di farlo. A me piacciono il set e lo studio, e che il rapporto con la persona che devo fotografare sia chiaro».

L’esempio delle fotografe Nini Mulas e Carla Cerati

Quando Mattioli ha iniziato la sua carriera era una delle poche donne fotografe in un mondo fatto soprattutto di uomini. Le chiedo quando ha capito che avrebbe potuto farlo anche lei per vivere: «Sono state Nini Mulas e Carla Cerati ad autorizzarmi a pensarmi fotografa, erano le due fotografe che ho visto per prime fare quel lavoro. L’autorizzazione a guardare con il tuo occhio ti viene così, altrimenti ti senti in diritto di fare solo l’assistente. Ho visto Nini Mulas, compagna di Ugo, portare avanti il suo lavoro, mentre tirava su due figli: a volte lo dimentichiamo, ma nel percorso fotografico degli autori c’è anche la vita, quella materiale». 

Paola Mattioli e il femminismo

La madre di Paola Mattioli era una donna emancipata, avvocatessa – come si presentava. Partecipò alla stesura del nuovo diritto di famiglia nel 1975 e fece una lunga battaglia per l’ingresso delle donne in magistratura, diventando la prima ad aprire la strada. «Al femminismo sono arrivata un po’ tardi» – spiega – «ci ho messo un po’ a capire che la seconda ondata di istanze femministe erano diverse dalle lotte fatte da mia madre. È stato in particolare grazie a un gruppo di artiste di cui facevo parte e in cui ero l’unica fotografa». Si incontravano una volta alla settimana, non tanto per fare autocoscienza, ma per sottoporsi a vicenda il proprio lavoro, chiedere consiglio, o di posare l’una per l’altra. 

Ci vediamo mercoledì e gli altri giorni ci immaginiamo

Questi incontri sono poi diventati un libro d’artista, Ci vediamo mercoledì e gli altri giorni ci immaginiamo. «A noi dava fastidio che l’immagine della donna fosse quella della pubblicità delle mutande, o peggio, di quella dello yoghurt, in cui che fossi in mutande non c’entrava niente: noi non ci riconoscevamo», spiega Mattioli, che usa l’autoritratto alla ricerca di una definizione dello sguardo femminile, che non operi l’oggettivazione tipica di quella maschile. Definizione che è possibile ritrovare nelle immagini scattate da Paola Mattioli per la campagna I say I, legata alla collezione Dior donna prêt-à-porter FW 2020 di Maria Grazia Chiuri, ispirata all’arte femminista italiana. Scatti che rompono cliché, danno risalto alla pluralità dell’universo femminile, i diversi ruoli e identità delle donne, sul desiderio di andare oltre i limiti, sulla diversità che sfida gli stereotipi.

Paola Mattioli sul femminismo abusato e la paura delle nuove generazioni

Il rapporto di Mattioli con il femminismo non è però legato solo ai codici di rappresentazione, ma anche a quelli narrativi. «Il desiderio degli anni Settanta era di rompere con un canone. Anche quello delle ragazze di oggi forse lo è, e mi viene da leggere il problema della fluidità come qualcosa che non riguarda una rottura, un desiderio, ma sembra dire: lasciate che diventi quello che diventerò. Ogni tanto discuto con mia nipote di 18 anni che mi parla del neutro, mentre noi abbiamo combattuto contro il neutro per trent’anni. Con l’esperienza capisci che il femminismo è il tuo punto di vista – aggiunge la fotografa – devi continuare a controllare che non ti sia entrata dai pori della pelle, o dalle orecchie o gli occhi, qualche l’idea idiota patriarcale di cui non ti sei accorta. È un incessante interrogarsi e un lungo lavoro. Oggi mi sembra che il femminismo sia fin troppo abusato. Il fatto che sia diventato di moda mi fa un po’ paura, toglie profondità al ragionamento. Va detto che la nostra era una generazione più fortunata, eravamo sicuri di riuscire a fare la rivoluzione e che il mondo sarebbe poi stato più bello, più comodo.. Questa è la prima generazione che ha paura, e ha tutte le ragioni per averne». 

Paola Mattioli e l’incontro con Ugo Mulas; il gusto estetico del maestro

Paola Mattioli spiega di essersi avvicinata alla fotografia perché in università in quegli anni il libro di culto era L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin. Racconta che all’epoca molti studenti di filosofia della Statale sceglievano di dare il primo esame con Gillo Dorfles in Estetica. «Mi sono letta i vari libri di storia della fotografia, e ho pensato quanto fosse noioso il dibattito cos’è l’arte, ancora molto acerbo all’epoca. Ho preso coraggio e mi sono messa in contatto con lo studio Mulas». 

Quando nel 1970 bussa alla porta in zona Corso Buenos Aires non ha mai scattato mezza fotografia. C’è il qui pro quo sul ruolo di assistente, e così inizia questa lunga storia d’amore con lo studio, tra fondali, flash elettronici, stampe particolarissime che ancora ricorda. Tra queste un’epifania in particolare, la fotografia di una scultura di Fausto Melotti, illuminata da Mulas con incredibile maestria – ancora più manifesta grandiosa di fronte al suo sguardo inesperto. «Aveva anche una abilità in quella che io chiamo ‘cartoleria’’, cioè il modo di presentare una stampa autografata. Quando mostrava le foto in agenzia, manteneva un margine nero intorno all’immagine, sottilissimo e simmetrico anche se fatto con l’ingranditore, cosa non facile. Disponeva la foto orizzontale sul foglio verticale o viceversa: il risultato era molto elegante, ma l’impaginazione non era solo un fatto estetico, bensì anche il modo per dire che quella foto era stata scattata in un certo modo e non avrebbe dovuto essere tagliata. Le sue foto messe sul tavolo erano di una bellezza che saltava agli occhi».

Paola Mattioli, il ritratto e la sua Hasselblad

È dagli anni Settanta che Mattioli, dopo aver incontrato per la prima volta la fotografia all’Università di Milano ed essere diventata ‘per errore’ assistente di Ugo Mulas ritrae volti e persone attraverso la sua Hasselblad, ragionando sulle possibilità politiche e filosofiche del linguaggio fotografico. «Io volevo passare qualche giorno in studio a osservare il mestiere, lui si sbagliò e mi presentò come la sua nuova assistente». Il libro di Paola Mattioli, è dedicato alla sua carriera di ritrattista, ma anche al suo modo di vedere il mondo e di fare memoria: un centinaio di pagine che tra immagini, aneddoti e pensieri.

Le foto di Paola Mattioli a Giuseppe Ungaretti

Mattioli è stata in grado di fare anche lo scatto giusto al momento giusto, come nel caso dei ritratti di Giuseppe Ungaretti, ultimi documenti ancora viventi del poeta. «Ho fotografato Giuseppe Ungaretti a metà maggio del 1970. Aveva 82 anni, io 22. Quale strana contingenza lo ha portato a fidarsi di me? Un editore d’arte, Luigi Majno, aveva bisogno di un ritratto di Ungaretti da inserire in originale tra le pagine di una delle sue cartelle dedicate ad arte e poesia, in questo caso abbinato a Sonia Delaunay. Avevo poca esperienza, un po’ di studio Mulas alle spalle. Credo di poter dire che abbia fatto tutto lui». 

«Io avevo appena cominciato a fare foto alle inaugurazioni delle mostre, ed erano terribili, da un lato per la luce tremenda, dall’altro perché la gente era sempre infastidita. Luigi Majno, che faceva grandi libri d’arte, fotografia, poesia e pittura, mi disse che voleva almeno una foto originale per quello con Ungaretti. Pensai: è amico di Cartier-Bresson, perché non le chiede a lui? Forse non aveva abbastanza soldi, mi dissi, ma fui molto contenta che si fosse rivolto a me». 

Quando Mulas vide quelle foto ne rimase colpito e le disse che avrebbe dovuto proporle a qualcuno: chiamò un amico art director, che si dimostrò però meno entusiasta, dicendo a Mattioli che quelle immagini sarebbero state utili solo quando Ungaretti fosse morto. Ironia della sorte, Ungaretti morì davvero poco tempo dopo, e tutti vollero i ritratti scattati da lei. Un episodio che per Mattioli dice molto del cinismo della stampa, e moltissimo della generosità e dell’apertura di Mulas e della società milanese di quella generazione, sempre disposta ad aiutare i giovani. «Un’apertura che oggi i ragazzi non trovano più, anche perché nel mondo della fotografia ormai si guadagna davvero poco». 

L’Africa ritratta negli scatti di Mattioli; le foto a Simon Dastani maestro dello stile nyamnezi 

La fotografia più difficile che abbia fatto l’ha scattata quando si trovava in Africa, un continente che è riuscita a raccontare concentrandosi sulla creatività dei suoi artisti. «Molti mi hanno ringraziato, perché non si era mai vista una rappresentazione così positiva», ricorda. A un certo punto a Dar es Salaam, Tanzania, si sente chiamare: c’è Simon Dastani [ndr. artista nato in Mozambico, e maestro della scultura Makonde, autore dello stile nyamnezi che influenzò Giacometti] che sta per morire. Entra in una capanna, vede un uomo sdraiato che sta male, ma non dimostra il minimo cenno di sofferenza, quasi fosse addormentato, con il viso appoggiato su un cuscino a fiori. «Mi sono chiesta: “dov’è il limite”? Vigliaccamente la mia parte razionale ha pensato: “Paola, fai questa foto, semmai non la usi”, ma mi è sembrato di fotografare un rito religioso, di inchinarmi di fronte a quell’uomo che stava morendo con una grazia e una serenità che erano un insegnamento». 

I ritratti degli operai di Dalmine e Fabbrico; le Immagini del No

Tra le immagini di cui va più fiera ci sono i ritratti degli operai di Dalmine e Fabbrico realizzati nel 2005-2006. «In quel periodo Berlusconi cercava attraverso i suoi canali di far credere che gli operai non esistessero più: il soggetto operaio era stato in quegli anni cancellato e il mio era un lavoro necessario.di cui c’era davvero bisogno in quel momento». Era appena uscito un libro di Maria Grazia Merigi che conteneva le interviste agli operai della Dalmine di Dalmine, mancavano le immagini. Mattioli decise così di fare una ricognizione sul mondo delle fabbriche, con il pieno appoggio del Sindacato della FIOM-CGIL. Più di trent’anni prima, nel 1974, aveva raccolto in “Immagini del No” tutti i cartelli e i graffiti con riportata la parola “No” sui muri e sui monumenti di Milano, riferiti al Referendum sull’abrogazione del divorzio di quell’anno.

Che rapporto hanno immagini e parole? 

«Le immagini non si difendono da sole, vanno fatte parlare»,  sostiene Francesca Adamo. «Il discorso scritto e parlato attorno all’immagine diventa sempre più rilevante è fondamentale, soprattutto oggi, in un mondo in cui siamo sommersi di immagini. Se non ne parliamo le immagini rischiano di sparire dal nostro orizzonte culturale». «Volevo che in questa collana fosse il fotografo a parlare, è una sfida che a volte non vogliono cogliere. Di solito si dice che il fotografo parla con le sue immagini: nì, o meglio, anche. Per quanto mi riguarda le parole sono complementari, riescono a portare appunto avanti nel tempo i discorsi e a farceli ricordare: sono un esercizio di memoria».

Paola Mattioli 

Studia filosofia con Enzo Paci e si laurea con una tesi sul linguaggio fotografico. Ancora studentessa diventa assistente di Ugo Mulas. Nel 1970, quindici giorni prima che morisse, realizza un ritratto a Giuseppe Ungaretti, pubblicato poi su diverse riviste in tutto il mondo, che lancia la sua carriera di fotografa. Attiva all’interno di movimenti femministi, nel 1974, in concomitanza con il referendum sul divorzio, pubblica con Anna Candiani il libro Immagini del no, esposto anche alla galleria Il Diaframma di Milano.. Nel corso della sua carriera ha utilizzato la fotografia per esplorare tematiche politiche e filosofiche, dalla questione femminile al lavoro operaio, dalla natura del vedere all’uso stesso del linguaggio fotografico. Nel 2016 esce Paola Mattioli. Sguardo critico di una fotografa di Cristina Casero, la prima monografia sul suo lavoro. Nel 2020 Mattioli cura la campagna FW 2020-21 di Dior ispirata al femminismo.

Alessandra Lanza

Lo studio di Paola Mattioli, Alessandra Lanza
Lo studio di Paola Mattioli, Alessandra Lanza
ungaretti ritratto da paola mattioli
Ungaretti ritratto da Paola Mattioli

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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