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Allevamento di pecore in Umbria
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Il riscatto della lana merino dell’Appennino parte da un borgo umbro

Risvegliare l’interesse per la fibra di lana merino ripartendo dalla cultura della pastorizia ed esaltando il legame con il territorio. Pastori umbri e aziende in contatto, il progetto di Apennine Mountain Wool

La lana dalle pecore in Umbria

Apennine Mountain Wool è un progetto per la valorizzazione della lana delle pecore allevate in Umbria. Non tutte: le discendenti della razza merino, importata in Italia dagli spagnoli nel periodo di dominazione delle regioni meridionali del Paese e incrociata con le razze locali. Così sono nate la Sopravissana, diffusa soprattutto sull’Appennino Centrale, e la Gentile di Puglia, più a Sud. Anche la loro lana, nonostante una qualità superiore rispetto a quella delle altre pecore italiane, ha risentito del graduale declino del settore laniero italiano negli ultimi cinquant’anni, complice la presenza sul mercato di lane e fibre tessili alternative più convenienti a livello economico per il settore della moda.

Dietro l’iniziativa c’è Nathan McMillan Ryde, per tutti Mac, imprenditore neozelandese trapiantato da oltre vent’anni a Pettino, borgo inerpicato sul monte Serano, nel Comune di Campello sul Clitunno (Perugia). Qui, insieme alla moglie, ha fondato Wild Foods Italy, parte turistica dell’azienda agricola di famiglia, che propone ai turisti esperienze gastronomiche e ricerche di tartufi per far assaporare le tradizioni dell’Appennino umbro. Oltre che a tavola, tuttavia, hanno deciso di provare a far percepire il calore e l’autenticità del loro territorio anche attraverso la lana che viene dalle loro pecore Sopravissane in collaborazione con il Lanificio Fratelli Cerrutti di Biella.

Biella The Wool Company

Mac ha deciso di avviare un percorso parallelo con l’obiettivo di risvegliare l’interesse per la lana nella sua regione d’adozione. La sua strada ha incrociato quella di un altro imprenditore di origine straniera da anni in Italia, Nigel Thompson, impegnato già dal 2008 in una missione simile. Con il suo consorzio – Biella The Wool Company –, Thompson raccoglie, seleziona e certifica la qualità dei lotti di lana inviati nel suo stabilimento da produttori italiani e europei per poi indirizzarli agli impianti di lavaggio e di filatura industriali.

Dall’incontro tra i due, ecco l’idea di creare un centro di raccolta intermedio in Umbria – una struttura che oggi manca in regione – per poi spostare la materia prima in Piemonte per tutto l’iter di lavorazione: «Nigel sta cercando di aiutare gli allevatori di pecore in Italia, di far risvegliare il settore della lana. Sono stato ispirato da lui. È venuto a trovarmi in Umbria ed è iniziata una collaborazione. Mi ha chiesto più volte di provare a creare una specie di consorzio, perché aveva bisogno di pecore in queste zone». Un consorzio non uguale a quelli che già esistono in altre zone d’Italia, specifica Mac. L’intenzione non è mettere in piedi una struttura che raccolga e smisti la lana per inviarla ai lanifici per poi farla tornare agli stessi produttori per la trasformazione finale. 

Tracciabilità della lana

Il progetto che ha in testa l’imprenditore neozelandese è di un punto di riferimento che lavori per garantire tracciabilità – dalla tosa alla realizzazione del prodotto finito – e sostenibilità della materia prima, dalla tosa alla commercializzazione del prodotto finito. Possibilmente valorizzando il suo legame con le zone da cui proviene e la cultura della pastorizia portata avanti dalle persone del posto. Alcune realtà interessate a questo percorso ci sono già, ma i nomi rimangono riservati per ora. Solo dopo aver rilevato questa sintonia tra le parti, il consorzio si metterà alla ricerca dell’allevatore che può rispondere all’esigenza del cliente. Sono già una decina, anche nel Lazio, i pastori che hanno dimostrato interesse. «Questa fibra avrà costi sempre un po’ più alti rispetto a quelle provenienti da altri mercati».

La lana delle merino italiane è diversa: pur essendo superiore a quella delle altre razze allevate nel Paese, non è all’altezza di quella neozelandese e australiana; tuttavia, ha delle caratteristiche che mancano alle concorrenti: «Una lana come quella della Sopravissana ha un’elasticità mediamente buona ed è caldissima. Purtroppo spesso le fibre sono molto corte e ciò la rende difficile da filare. Inoltre, lo spessore è più largo rispetto alle fibre prodotte in Nuova Zelanda e in Australia. Vuol dire che è meno morbida e più rustica. È difficile creare una giacca o un vestito da uomo con una materia del genere. Non sarà cachemire, ma per fare altre cose, come maglioni e plaid, è consigliabile. Ha un valore diverso e non entra in competizione con quei Paesi».

L’ideatore di Apennine Mountain Wool viene da una famiglia attiva nel settore: «In Nuova Zelanda e in Australia hanno un approccio scientifico. Negli ultimi 50-60 anni hanno selezionato pecore in modo tale da produrre una lana omogenea. Mio cugino ha 8-10 mila pecore: se osservi il vello dei vari esemplari è molto simile. Da un allevatore di Sopravissane noterai differenza tra i capi: da quando la lana è stata abbandonata in Italia, non si è più prestato attenzione alla selezione genetica».

Lana merino: per una filiera italiana

Quello che si può fare è lavorare sugli aspetti che, accanto alla selezione genetica, sono più facilmente migliorabili. Accorgimenti che se seguiti possono dare un riscontro in termini di qualità della materia prima. «Un problema in Italia – ricorda Mac – è che le pecore sono tenute molto in stalla d’inverno. Al chiuso la lana si sporca di più e quando la si manda agli impianti per il lavaggio e la filatura, rende meno in termini economici: si arriva a perdere anche il 60-70 percento della lana consegnata (la parte non lavorabile proprio a causa delle condizioni del vello ndr). In Australia e in Nuova Zelanda si viaggia sul 30 percento. Le soluzioni ci sono: ad esempio, mettere la paglia per terra per non far sporcare gli animali oppure mandarli a pascolare in aree dove si sporcano meno»

Perché la qualità cresca, tuttavia, è necessario garantire un guadagno migliore ai pastori, scoraggiati da anni di disinteresse verso questo prodotto: «Se avessero la richiesta da parte delle aziende di produrre una fibra più fine, più lunga e più elastica e ricevessero un compenso più alto, inizierebbero a dedicare più tempo e risorse per alzare il livello», sottolinea l’allevatore di Pettino.

È qui che entrerà in gioco Apennine Mountain Wool con il suo ruolo di intermediario. Quando il progetto indica la sostenibilità tra le sue linee guida non fa riferimento solo al rispetto dell’ambiente, ma al concetto più ampio del termine. A partire, appunto, da quella economica: fornire una fonte di reddito stabile alle famiglie del territorio che praticano la pastorizia da secoli. L’attenzione per l’ambiente non mancherà e caratterizzerà tutte le fasi del processo anche se «quando la lana sarà spostata a Biella, sarà difficile controllare quello che succede».

Osservando le dimensioni degli allevamenti umbri, quello dell’impatto ecologico è un discorso che lascia il tempo che trova, riflette Mac: «I numeri dei greggi in Centro Italia sono bassi: il tasso di inquinamento non è rilevabile, in più non sono impiegate sostanze chimiche. La presenza di un numero minimo di animali fa bene all’ambiente: curano il territorio che altrimenti sarebbe più selvatico per chi lo vive. In questi posti gli allevatori sono attenti alla salute delle pecore. Molti eseguono ancora la mungitura a mano. In Paesi come il mio o l’Australia, dove hanno grandi numeri, non possono dargli la stessa attenzione. In queste zone d’Italia essere sostenibili e biologici è la prassi».

Il progetto Apennine Mountain Wool

Avviato dall’imprenditore di origine neozelandese Nathan McMillan Ryde, punta alla creazione una rete di allevatori in Umbria e un consorzio per valorizzare la lana delle pecore merino italiane (la Sopravvissana e la Gentile di Puglia) allevate nella regione. L’obiettivo è collaborare con le aziende per produrre una materia prima tracciabile e sostenibile in ogni passaggio e fare risaltare la cultura della pastorizia dei territori da cui proviene.

Marco Rizza

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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