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Pelli sintetiche più inquinanti della pelle animale – chance e focus sulla biopelle

La biopelle prodotta a partire da bio polioli, polimeri estratti da cereali e mais – quando il 95% del mais prodotto è utilizzato per nutrire gli animali di filiera alimentare impostata sul consumo di carne

Similpelle: cosa significa

La similpelle si ottiene a partire da una plastica di derivazione petrolchimica, oppure è realizzata a partire da un tessuto naturale trattato con sostanze plastiche, come il poliuretano, steso allo stato liquido sul tessuto. Entrambe le produzioni richiedono l’impiego di sostanze che derivano da combustibili fossili, i principali responsabili dell’inquinamento atmosferico. 

Secondo il rapporto Aria tossica: il costo dei combustibili fossili, steso da Greenpeace Southeast Asia e CREA (Centre for Research on Energy and Clean Air), il costo dell’inquinamento causato da petrolio, carbone e gas ammonta, per la sola Italia, a circa 61 miliardi di dollari annui. La similpelle pone anche il problema del suo smaltimento. Per la natura delle sostanze petrolchimiche dalle quali si ottiene, impiega centinaia di anni per biodegradarsi.

Biopelle di origine vegetale

Diversamente la biopelle non include componenti fossili, e deriva da elementi di origine vegetale. Coronet, che dal 1967 produce tessuto tecnico destinato alla manifattura – tra i clienti Stella McCartney –, ha intrapreso la via dei bio-polioli, polimeri estratti da cereali come il mais. A differenza delle altre pelli sintetiche, che sono al 95 o al 99% di derivazione petrolifera, il materiale biobased ha una percentuale di contenuti bio (che hanno origine da materie prime naturali come legno, cereali, mais e cotone organico) superiore all’80%. Ha una resistenza all’abrasione doppia, ed è lavabile, anche in lavatrice.  

Più della metà delle terre arabili a livello mondiale è dedicata ai cereali: un gruppo di specie in grado di produrre frutti o semi secchi e amidacei che, fin dall’antichità, sono stati la principale fonte di alimenti per l’uomo. Alcuni di essi, come il miglio e l’orzo, erano coltivati già in epoca neolitica, e la loro produzione è connessa alla nascita dei primi insediamenti stabili dell’uomo. Attualmente, a livello mondiale, il cereale più prodotto è il mais, il cui raccolto tra il 2018 e il 2019 ha sfiorato i 1.100 milioni di tonnellate. Seguono il grano e il riso. Questi tre vegetali, da soli, rappresentano il 90% della produzione globale di cereali. Il Paese che detiene il primato della produzione cerealicola è la Cina, mentre i principali consumatori sono gli Stati Uniti.

In Italia il 32% della superficie agraria utile è destinata alla coltivazione di questi vegetali; il 56% di essa è situata nel nord e nel centro della penisola. I cereali più coltivati in Italia sono il frumento (tenero e duro), il riso, il mais e l’orzo. La coltivazione di riso, di cui l’Italia è uno dei principali produttori a livello europeo, si colloca prevalentemente nella regione Veneto (circa il 51%), concentrandosi nelle province di Vercelli e Novara, e in Lombardia, soprattutto nella zona della Lomellina (41,5%). In queste due regioni si coltiva anche il mais. Il frumento si coltiva perlopiù in Sicilia, mentre la Puglia si distingue per la produzione di grano duro. Colture estensive sono presenti nelle aree pianeggianti del Friuli-Venezia Giulia, mentre in Emilia Romagna prevale il modello di piccole e medie aziende altamente meccanizzate. Infine, anche se in misura nettamente minore, in Italia sono prodotti avena, sorgo, segale e farro.

I cereali coltivati in Italia 

Sono impiegati nel settore alimentare – per gli umani e zootecnica. Il mais è impiegato per nutrire gli animali: l’82% della produzione nazionale è destinata a questo utilizzo. Dei cereali vengono impiegati anche i derivati, destinati a utilizzi industriali. L’orzo è destinato all’industria della birra. Mais, sorgo e frumento a quella dell’amido. Introdurre i cereali nel settore dell’abbigliamento potrebbe ovviare alle innumerevoli problematiche poste dall’impiego della similpelle.

Bio polioli per la biopelle

Dopo un anno e mezzo di ricerca e sviluppo nell’utilizzo dei cereali nel settore dell’abbigliamento è nata Yatay, azienda produttrice di sneakers vegane. L’impiego di biopelle ottenuta dai cereali garantisce un prodotto che non sfrutta gli animali. Le sneakers si ottengono da tredici componenti, tra i quali i bio polioli derivanti dai cereali. La biopelle ottenuta dai bio polioli va a formare la tomaia della scarpa, la parte superiore che fascia il piede. La tomaia della sneaker è realizzata in-house – si tratta di un processo di coagulazione e spalmatura di bio polioli, ovvero granuli di tpu, che invece di provenire da plastica derivano da cereali. 

Sono sciolti, e in una prima fase sono spalmati su un tessuto. Il tessuto è poi gettato in vasche dove prende il corpo della pelle sintetica, della biopelle. In un forno è asciugato. Il secondo passaggio prevede che questi bio polioli siano sciolti su una carta release, che ha la grana e il colore dell’animale che si intendono replicare. I fogli, passando attraverso i forni, vengono applicati sulla base prodotta nell’altro stabilimento. La carta release è staccata, e il prodotto ha l’aspetto della pelle.

Sneaker Yatay: composizione

Oltre ai bio polioli, la sneaker si compone di altri materiali, tutti ottenuti da fornitori italiani: la cellulosa, che arriva da piantagioni certificate ed è impiegata per la fodera. Le solette si ottengono dal processo di riciclaggio degli pneumatici. Sono impiegate anche bottiglie di plastica riciclate. Secondo un rapporto OCSE del 2018, a livello globale solo tra il 14 e il 18% della plastica è riciclata, mentre il resto è destinato a inceneritori o, la maggior parte, alle discariche (o è disperso nell’ambiente). A ciò bisogna aggiungere che tutti i collanti impiegati nel procedimento sono all’acqua, e che il laccio della sneaker può essere in canapa o anch’esso in biopelle. Tutti i componenti sono assemblati a mano nelle Marche, secondo la tradizione calzaturiera italiana. 

L’impiego di bio polioli ottenuti dai cereali ovvia anche a un altro problema della similpelle tradizionale: semplificano lo smaltimento della sneaker a fine vita. Nel caso di Yatay, l’azienda si fa carico della scarpa usata, e, mentre la suola è rimandata al fornitore che la ricicla per produrne di nuove, la tomaia è smaltita. Ogni sneaker riporta laserato sul retro della suola un codice. I clienti, tramite il loro profilo sul sito, inviano l’indirizzo di ritiro della vecchia scarpa. Il fornitore separa la suola dalla tomaia. La tomaia si smaltisce, mentre la suola è triturata e utilizzata per realizzare future Yatay.

Yatay: alberi piantati 

Attraverso il codice cliente, loggandosi sul proprio profilo, si può selezionare un albero e compiere l’operazione plant this tree, ossia contribuire alla piantumazione di una foresta in Kenya – e ridurre l’impronta energetica negativa dell’azienda. A oggi, sono circa 49908 i kg di CO2 assorbiti dagli alberi piantati da Yatay. Si è in grado di monitorare l’assorbimento di CO2 degli alberi dei clienti e di calcolare la media del consumo di CO2 durante il ciclo produttivo. Quando le due misure si equiparano, i clienti sono avvisati di non essere più impattanti sull’ambiente. La scatola delle scarpe è una backgammon board, realizzata con materiali eco. In ciascuna è presente una pochette – fatta con gli scarti della bio pelle – che contiene le pedine per giocare.

Ilaria Aceto

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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