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Le Muse inquiete: la biennale di fronte alla storia – il report da Venezia

Sulle brochure, nessuna immagine riprodotta per ridurre gli sprechi. L’allestimento è stato concepito da Formafantasma come un insieme di elementi modulari, smontabili e riutilizzabili

Le Muse inquiete: la biennale di fronte alla storia. La visita alla mostra – presentata alla Biennale di Venezia il 29 agosto – comincia prima dell’ingresso fisico. Ci si deve registrare qualche giorno avanti al sito, scegliendo un orario perché sia garantita la presenza di numeri adatti alla visita senza rischio di contagio. All’arrivo alla stazione di Santa Lucia, la città si presenta come molti anni fa. Ci sono poche barche o autoscafi nel canale. Si attende l’arrivo del vaporetto, perdendosi nel brusio pedonale e nello sciacquio sotto i piedi. Alla discesa Giardini si è in pochi, sotto le fronde degli alberi davanti all’ingresso è possibile procedere godendosi il luogo e l’attesa della mostra: il primo evento internazionale d’arte del 2020 e provare la stessa attesa dei visitatori che più di un centinaio di anni fa arrivarono a visitare la prima Biennale della Storia. L’esposizione si trova al Padiglione Centrale dei Giardini ed è organizzata in tredici ambienti: una premessa sulla sua fondazione e il suo statuto, e dodici sale tematiche a partire dal 1932, quando ebbe corso la prima Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica. Al centro del dibattito: un turismo promosso attraverso la cultura e legato alla valorizzazione del territorio; il rispetto per l’ambiente attraverso la riduzione dell’impiego di supporti cartacei e l’uso di materiale riciclato e riciclabile per la stampa; l’approccio progettuale a un allestimento pensato per il riuso; un accesso sicuro per scongiurare l’emergenza sanitaria.

Durante la visita si alternano nel pensiero le immagini del passato trattato dalla mostra a quelle del proprio vissuto, uniti alle preoccupazioni del presente. Nella gigantografia apposta all’ingresso del Padiglione ci sono sei immagini storiche, e nella porzione di destra resta visibile la facciata attuale, col finale della scritta (Bien)nale. Si ricompone un’immagine sintetica di passato e presente. Si è messi di fronte ai cambiamenti della Storia e ci si ritrova a pensare alla prima volta in cui si è messo piede alla Biennale di Venezia. Avevo dodici anni, era il 1980. Veniva presentata la prima Mostra Internazionale di Architettura curata da Paolo Portoghesi e da quattro co-curatori – Charles Jencks, Christian Norberg-Schulz, Vincent Scully e Kenneth Frampton. Mi ricordo di avere sostato nella ghiaia guardando quello stesso portale. Anche la mostra attuale è curata da più figure, i sei direttori artistici o delle Muse della Biennale, come li definisce il neopresidente Roberto Cicutto: Cecilia Alemani per l’arte, Alberto Barbera per il cinema, Marie Chouinard per la danza, Ivan Fedele per la musica, Antonio Latella per il Teatro e Hashim Sarkis per l’architettura. Una mostra che fa risuonare le diverse discipline nella storia mettendone in luce il loro ruolo politico, culturale e sociale, mostrando come le arti abbiano anticipato, alle volte orientato e altre contrastato, il corso degli eventi del Novecento. Questa scelta curatoriale propone un orientamento della Biennale nel dibattito internazionale, quello di riconoscersi come un sismografo attraverso cui valutare o intercettare i cambiamenti in corso e generare rotte volte alla realizzazione delle sfide delle generazioni futuro. Già Nietzsche sosteneva che ‘il futuro influenza il presente tanto quanto il passato’. 

LE MUSE INQUIETE HANS HAACKE\GERMANIA, 1993 – COURTESY LA BIENNALE DI VENEZIA

Si varca l’ingresso del Padiglione: nell’atrio viene distribuito su richiesta la piccola brochure cartacea, un documento assemblato in carta riciclata e inchiostri compatibili, dal formato pratico consultabile durante la circolazione nelle sale espositive. Pensato come compendio per completare la visita è anche scaricabile in formato .pdf dal sito web. Vi sono i testi e mappe grafica delle sale, i titoli delle sezioni, le didascalie dei pannelli e dei tavoli, delle immagini e dei video, una mappa completa e le firme degli autori dei testi. Un progetto editoriale che rende possibile entrare nella mostra, seguire il filo dei curatori e ripercorrerli successivamente. Nessuna immagine è riprodotta per ridurre gli sprechi e l’uso improprio delle risorse. L’allestimento è stato concepito da Formafantasma come un insieme di elementi modulari, smontabili e riutilizzabili, a disposizione dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia per future mostre. Si tratta di cornici non verniciate e tavoli in compensato composti insieme a tessuti colorati, stampe in bianco e nero fuori scala di fotografie e documenti, collegabili tra loro per creare ambienti. Un segnale importante sui temi del riuso sempre più percorso nel mondo del design e dell’architettura.

Oltrepassato l’ingresso, L’Ottagono è la prima sala del Padiglione: si tratta di uno spazio a pianta centrale la cui caratteristica è di essere umbratile. In genere vi si installano un insieme di opere o una mega struttura, che costituiscono un Manifesto tridimensionale della mostra. Possiedo un mio archivio di immagini mnemoniche di questa sala, le più vivide sono quelle che ho visitato tra il 1999 e il 2002, studiando per il dottorato in architettura degli interni e museografia. In quel lasso di tempo non solo si scavallava il millennio, ma furono presentate le due mostre del curatore Harald Szeemann. Quella del 1999 dal titolo dAPPERTutto sarà l’ultima ad essere riportata in questa mostra sul Secolo breve. Il 1999 fu l’anno dei cambiamenti. Si aspettava il Duemila e non si voleva arrivarci impreparati. La Biennale si trasformò da Ente di stato a Istituzione pubblica, come succedeva con molte istituzioni secolari d’arte. Prese l’assetto attuale e l’attuale modello espositivo: un curatore la cui responsabilità è quella di offrire un panorama coerente sull’arte contemporanea. H. Szeemann è stato una figura chiava del mondo dell’arte del e per la Biennale aveva già seguito episodi espositivi come Le Macchine Celibi del 1975 e APERTO80.  Di quell’edizione ricordo una folla, accalcata nelle sale che cercava un’anteprima del futuro: un mondo in fermento. È questo quello che sto cercando in questa mostra: intercettare il futuro attraverso il passato. 

Nell’attuale mostra l’apertura nella sala ottagonale è una installazione di cinque schermi fissati su un grande piedistallo in legno a quadrifoglio, che presentano videoclip storici estratti dai cinegiornali dell’Istituto Luce sul periodo fascista, immagini dei film e delle soirée del Festiva del Cinema d’Arte di Venezia dal 1932 al 1939 e infine immagini di episodi ludici nella città, accompagnati dalla tipica voce esortante nell’invito a recarsi a Venezia per la stazione balneare e per il turismo dell’élite dell’Asse Roma-Berlino. Nelle sala successiva (Parte Prima), La biennale durante il fascismo 1928-1945, si osserva la progressiva politicizzazione fascista della Biennale, con momenti equivoci per la presenza di immagini anche a grande formato di interni dall’estetica militare da occupazione nazista messi però in atto in tempi di fanatica alleanza. 

Nella parte seconda della stessa sala si trova La Guerra Fredda e i nuovi ordini mondiali 1947-1964 in cui alla rinascita delle manifestazioni d’arte corrisponde la riscoperta dell’arte delle avanguardie e la nuova estetica del Neorealismo. La sala del sessantotto tra contestazioni e nuovi ideali è quella centrale e leggermente ipogea.  Vi si presentano una serie di video con sequenze sui dissensi e la comparsa della nuova avanguardia rappresentata in particolare dalla Danza: Blues Suites di Alvin Ailey, dove ballerini di colore interpretano musiche e danze afroamericane all’interno di scenografie e coreografie innovative, Imago di Alwin Nikolais, un balletto anti-narrativo espressivo e moderno inserito in un’opera totale, e infine uno degli Events di Merce Cunningham dove i ballerini spazzano piazza San Marco con scope tra le sedie che emettono musica, rumori e suoni. 

La sala sugli anni Settanta dal titolo Interdisciplinarietà e impegno politico viene battezzata nel segno del 1974, quando l’incarico a presidente fu assegnato a Carlo Ripa di Meana e si procedette a una negoziata spartizione politica delle cariche in relazione all’appartenenza politica. Si susseguono in questa sezione le mostre curate dai ‘grandi’: H. Szeemann nel 1975 già citato, Ambiente Arte di Germano Celant nel 1976, Proposte per il Mulino Stucky di Vittorio Gregotti nel 1975, Bob Wilson per la Danza nel 1976, Luca Ronconi per il teatro tra il 1975 e il 1977 con le performance di Jerzy Grotowsky, Eugenio Barba, MaMa Experimental Theater Club, Living Theater, Merredith Monk tra gli altri.  Questa decade ha alcune appendici la prima una stanza dal titolo Libertà al Cile 1974 disposta quell’anno da V. Gregotti dopo il colpo di stato di Pinochet, che rovesciò il Parlamento democratico e portò alla morte di Salvador Allende; e una dal titolo La Biennale del dissenso 1977, quella in cui si diede voce ad artisti dissidenti nell’Unione Sovietica di Leonid Il’ič Brežnev..

L’ambiente seguente è: 1980 il Postmoderno e La prima Biennale di Architettura, è la sala più piccola nel Padiglione, ma da questo momento in poi, le Biennali di arte e architettura le ho viste di persona e mi sento di camminare leggera: entro in una memoria di ambienti e luoghi noti, attraverso sale che mi raccontano la mia formazione e l’inizio del lavoro. Di fronte all’ultimo pannello La storia dei Padiglioni Nazionali penso alla folla che si riversa nei Giardini all’opening e al suo tipico brusio, alle sfilate dei politici, alle vasche dei curatori, alle presentazioni nel cicaleccio della calca, alle performance in presenza e mi guardo intorno: la Biennale di Architettura quest’anno anno è stata sospesa, questo è un evento simbolo per il 2020. C’è silenzio intorno a me. L’ingresso è a turni, viene provata la febbre, viene chiesto di stare distanti e di usare bene il proprio tempo, per non rischiare di creare un focolaio nella casa delle Muse. 

Uscita dal Padiglione alla luce naturale, osservo i Giardini liberi dal pubblico, i padiglioni nazionali chiusi e penso al futuro dell’arte e al bisogno che ne abbiamo avuto, tutti, in questi mesi, per resistere alla solitudine, alla frustrazione e al nonsenso della privazione durante il Lock down, alla paura del contagio e alla tristezza delle perdite, tra cui i quattro Leoni alla carriera Maurizio Calvesi Germano Celant, Okwui Enwezor, Vittorio Gregotti.

Penso che la nuova stagione sia quella dei diritti allargati ricapitolati nell’Agenda 2030. Il Novecento ci ha insegnato che è possibile muoversi con velocità impressionante, ottenere cambiamenti in tempi brevi.

Photo Credits
Marco Cappelletti – Courtesy La Biennale di Venezia

Formafantasma Team
Gregorio Gonella, Jeroen Van De Gruiter

Biennale team
ASAC, Marta Papini

Curators
Cecilia Alemani
Alberto Barbera
Marie Chouinard
Ivan Fedele
Antonio Latella
Hashim Sarkis

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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