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Alessandro Sciarroni: Polka Chinata alla Fondation Cartier a Parigi

Furono gli altri a dire ad Alessandro Sciarroni che quello che creava si chiamava danza. Pensava di fare altro, ispirandosi al movimento degli animali. Nel 2019 il Leone d’oro alla carriera

Non ha mai studiato danza, ma nel 2019 ha vinto il Leone d’oro alla Biennale Danza di Venezia

Le sue coreografie hanno sempre al centro un gesto o movimento nati in ambiti diversi rispetto a quello della danza d’arte – il riso, la giocoleria, la danza tirolese, il roteare attorno al proprio asse, una pratica sportiva – che viene amplificato, ripetuto, estremizzato, esasperato.

Quando gli chiedono cosa siano esattamente i suoi spettacoli ricorda sempre che all’inizio della sua carriera da coreografo essi non trovavano un territorio di appartenenza. Per il teatro il suo linguaggio era troppo minimale, per l’arte performativa troppo barocco. Qualcuno nel 2008 gli consigliò di proporre i suoi lavori ai festival di danza contemporanea, che cominciarono ad accettarli. Fu così che Sciarroni capì che quello che stava creando era danza. «Con gli anni mi sono abituato al termine coreografo, e ho abbracciato questa sorta di adozione da parte del mondo della danza», spiega. 

Lampoon intervista Alessandro Sciarroni – tra coreografia e danza

Cosa sia questa ‘danza’, dopo 13 anni, l’ha capito? «Mi piace la definizione che ne dà Wikipedia. Molto semplice e ciascuno potrebbe modificarla. Dice: la danza è un’arte scenica basata sul movimento del corpo umano. Questo movimento può essere completamente stabilito e fissato o improvvisato all’interno di un sistema che si chiama coreografia. Non dice altro, non parla di musica, armonia, bellezza, ma solo di movimento organizzato: questo è esattamente quello che faccio, organizzare il movimento umano nel tempo e nello spazio. Questa è la definizione più interessante di danza che ho trovato fino ad oggi».

Cosa accomuna la danza ai gesti che prende in prestito da altri ambiti e ripete ossessivamente fino a trasformarli in qualcosa d’altro? «Da piccolo ero affascinato dai movimenti di certi animali: restavo ore a fissare le formiche in fila o le migrazioni degli uccelli che passavano sulla mia testa, nelle Marche. Mi chiedevo come facessero a sapere dove andare, a muoversi tutti assieme. Oggi quando vedo molte persone che fanno una stessa attività all’unisono sento ancora quella sensazione di un mistero».

Alessandro Sciarroni: la formazione

Alessandro Sciarroni si è avvicinato al palcoscenico per caso: durante gli studi in Conservazione dei Beni Culturali all’Università di Parma è entrato nella compagnia di teatro sperimentale Lenz Rifrazioni. Per dieci anni ha lavorato come attore per la compagnia, nel 2007 ha cominciato a creare i propri lavori. «Avevo 19-20 anni, volevo fare qualcosa e sentivo di non essere particolarmente dotato per la musica, come lo erano miei coetanei che avevano una band; quindi ho pensato di provare teatro. Ho trovato l’annuncio di un corso. Al tempo non sapevo che esistevano diversi tipi di teatro e che la compagnia in cui ero stato preso, la Lenz Rifrazioni, era una delle più radicali e sperimentali in Italia».

Intanto, in Università, Sciarroni scopre anche l’arte performativa: «Alle superiori avevo frequentato un istituto per geometri, non avevo mai studiato storia dell’arte e avevo letto pochissimi libri. Quello che studiavo all’Università, anche se era cominciato negli anni Settanta ed era già stato in parte storicizzato, per me era del tutto nuovo. Sentivo che c’era qualcosa di misterioso in quelle pratiche e volevo saperne di più. Marina Abramović, Vito Acconci, Gina Pane erano un po’ miei supereroi». Nel 1997 Abramović con Balkan Baroque alla Biennale di Venezia ripuliva le ossa di bovino dalla carne e dalla cartilagine residua e con quest’opera vinceva il Leone d’oro.

La compagnia Lenz Rifrazioni

Nel teatro sperimentato con la compagnia Lenz Rifrazioni c’era una cosa che Sciarroni incontrava lì per la prima volta e non trovava altrove: la radicalità. «Non pensavo potesse esistere uno stile di vita così radicale, tanto più perché applicato a qualcosa di effimero, che esiste solo nel momento della rappresentazione davanti al pubblico. Già in sé il mestiere dell’attore richiede talmente tante ore di lavoro che esso coincide con la vita. Scoprivo che questa pratica e la vita stessa potevano essere radicali». Dove avrebbe trovato questa radicalità Sciarroni se venticinque anni fa, per caso, non avesse sbattuto contro l’annuncio di un corso di teatro della Lenz Rifrazioni? «Quando ripenso al passato sembra che sia avvenuto tutto per caso. In realtà forse sono io che sono andato a cercarlo, che sono stato attratto da quel tipo di contingenza e non da altre. Quindi credo che banalmente non ci sarebbe stato altro che avrei potuto fare».

C’è una differenza tra i lavori di Sciarroni e l’arte performativa degli anni Settanta: «Io non ho l’esigenza di disturbare o trattar male il pubblico. Lo sforzo incentrato sulla resistenza e la ripetizione che c’è nei miei lavori è ricerca del piacere, di una dimensione empatica con gli spettatori». Cosa si attende da loro? «Ho capito subito, a mie spese, che quello che vedevo io nel mio lavoro non era condiviso da tutti gli spettatori in sala: in alcuni casi i risultati erano migliori delle aspettative, in altri deludenti. Quello che vedo durante le prove e quello che costruisco è ciò che affascina il mio occhio: sono io il primo spettatore delle mie performance. Quindi la speranza è sempre che in sala ci sia il maggior numero possibile di spettatori in grado di vedere quello che ho visto io. L’unica cosa che possiamo fare è cercare di essere fedeli al nostro sguardo e progetto iniziali».

Arte performativa sui social network

Valentina Tanni in Memestetica sostiene che l’arte performativa abbia trovato applicazione quotidiana nelle performance dei social network, TikTok su tutti, perdendo quindi ragione di esistere in gallerie o musei: qualcuno potrebbe cominciare a temere che lo stesso accada per la danza. «Quello che facciamo oggi è già esotico. Uscire di casa, prendere un macchina, trovare parcheggio, pagare un biglietto, e trovarsi con altre persone in un luogo per condividere qualcosa che succede esclusivamente in un tempo reale. Ma questo credo ci dia una forza che altri format non hanno». Durante la pandemia tutti si chiedevano cosa sarebbe stato della danza, del teatro. «La danza non si estingue come le piante o gli animali, con la scomparsa totale del soggetto. La danza esiste finché non cade nell’oblio, fino a che c’è qualcuno a guardarla e praticarla. È comprensibile sentire che qualcosa sta cambiando in una direzione e su questa linea fare previsioni future. In realtà il tempo storico che stiamo vivendo e abbiamo vissuto negli ultimi due anni ci sta dicendo l’opposto: nulla va dato per scontato e la nostra visione sul futuro è sempre limitata»

Save the last dance for me alla Fondazione Cartier a Parigi

Il lavoro Save the last dance for me, nato nel 2019, che lunedì 22 novembre 2021 verrà presentato alla Fondazione Cartier a Parigi, lo dimostra. Il movimento al centro del lavoro è quello del ballo popolare bolognese Polka Chinata: una danza di corteggiamento eseguita in origine da soli uomini risalente ai primi del Novecento. Essa prevede che i danzatori, abbracciati l’uno all’altro, girino vorticosamente piegandosi sulle ginocchia quasi fino a terra. Il lavoro è nato in collaborazione con Giancarlo Stagni, un maestro di balli Filuzziani che a fine anni novanta ha trovato alcuni video risalenti a trent’anni prima che documentavano questa danza e ha ricominciato a insegnarla.

Sciarroni ha scoperto la Polka Chinata nel dicembre 2018, quando era praticata da solo cinque persone, istruite da Stagno. Oltre alla performance eseguita da due danzatori, Save the last dance for me prevede workshop accessibili a tutti per diffondere la conoscenza di questa tradizione. Questa danza popolare negli anni settanta e ottanta era morta perché nessuno la sapeva più danzare, Giancarlo Stagni e Alessandro Sciarroni l’hanno fatta rinascere. «L’immaterialità e l’incostanza di queste tradizioni permette loro di scomparire e ricomparire, addirittura saltando generazioni intere».

Danza popolare e contemporanea d’arte

Save the last dance for me non è il suo primo lavoro nato sui passi di una danza popolare. Folk-s prendeva in prestito i movimenti del ballo bavarese e tirolese Schuhplattler, che consiste nel battersi le mani sulle gambe e calzature. Che differenza c’è tra la danza d’arte e popolare? «Quello che mi affascina della danza popolare è che questi movimenti sono molto più antichi di noi. La Polka Chinata ha cent’anni, ma abbiamo lavorato su danze antiche quasi mille anni. Quando è così, andiamo a incorporare un movimento che è diventato quasi un archetipo del movimento umano, che porta con sé mistero e che è il contrario dei cliché legati a queste pratiche. Siamo soliti associare la danza popolare a qualcosa di puramente ricreativo, anche leggero, superficiale. Quando vediamo persone che ballano il liscio non riusciamo a percepire in questo evento una vibrazione contemporanea. Basterebbe solo rimuovere l’aspetto folklorico della musica».

Alessandro Sciarroni: la concezione del tempo

Una cosa accomuna tutte le performance di Sciarroni: la ricerca di una dimensione temporale altra. «All’inizio dei miei lavori c’è sempre una lunga attesa dove apparentemente sembra non succeda niente, come ad avvertire lo spettatore che non siamo lì per intrattenerlo ma per avviare con lui un viaggio alla ricerca di un tempo altro. Quando questo fatto si stabilisce fin dall’inizio, poi la performance si fa sempre più complicata e articolata e lo spettatore iniziai a sentirsi parte di quel viaggio. Anche negli workshop che faccio, la proposta è quella di cercare una dimensione del tempo e della pratica inaspettata».

Un viaggio che si può fare solo in presenza, dal vivo, senza mediazione di alcuno schermo. I suoi workshop si rivolgono ad alunni delle scuole di danza, professionisti, ma anche a persone comuni, che in alcuni casi non hanno mai danzato prima – o almeno così credo. Così è stato anche per gli workshop di Save the last dance for me. Cosa scopre danzando chi non danza mai? «L’essere presente, il vivere il momento che stiamo vivendo, il cercare di non immaginare il futuro. Quando si riesce ad arrivare a questo – può farlo chiunque, anche un principiante con movimenti molto semplici – la danza diventa una forma di meditazione, c’è una consapevolezza del corpo altro. Capita raramente nella vita quotidiana di raggiungere questo stato, forse quando si ride tanto con degli amici durante una cena o quando si fa l’amore».

Alessandro Sciarroni 

Alessandro Sciarroni è nato 1976 a San Benedetto del Tronto e si è laureato in Conservazione dei Beni Culturali all’Università degli Studi di Parma. Ha lavorato per dieci anni come attore nella compagnia Lenz Rifrazioni. Dal 2008 crea i suoi lavori da coreografo e nel 2019 ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Biennale Danza di Venezia. Il suo ultimo lavoro è In a Landscape, terzo capitolo del progetto ‘Dialoghi’ della compagnia Collettivo Cinetico, guidata da Francesca Pennini. Lo spettacolo Save the last dance for me sarà alla Fondazione Cartier a Parigi all’interno della mostra di Damien Hirst Cherry Blossoms lunedì 22 novembre 2021.

Leone d’oro alla Biennale Danza di Venezia 2019

Secondo la motivazione del premio, Alessandro Sciarroni è un coreografo italiano che crea in risonanza con l’arte della performance. È il direttore d’orchestra dei danzatori e di tutti coloro che, provenienti da diverse discipline, invita a partecipare ai suoi progetti. Costruisce dei concentrati di vita al limite dell’ossessione disponendoli attorno a eventi scelti delle nostre vite fragili e ordinarie. Mette in scena i nostri corpi quotidiani in uno spazio che amplifica l’insistenza a trovare la falla che ci addolcirà e solleverà.

Nicola Baroni

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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