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Piero Maranghi tra Piero Portaluppi, bellezza e Milano – questioni di famiglia

Piero Maranghi, imprenditore milanese diviso tra progetti culturali e la Fondazione Piero Portaluppi, dedita al recupero della produzione architettonica del suo bisnonno

Lampoon intervista Piero Maranghi

«Questa storia è iniziata perché io mi chiamo Piero». I protagonisti sono un pronipote e un bisnonno, omonimi e milanesi. Il primo è Piero Maranghi, imprenditore classe 1969 impegnato nel mondo della cultura, figlio del banchiere Vincenzo. Il secondo è Piero Portaluppi, nome dell’architettura italiana del Novecento, scomparso nel 1967. Tutto è iniziato da Casa degli Atellani, luogo simbolo della Milano rinascimentale situata in Corso Magenta, a due passi dal Cenacolo Vinciano. 

Qui Maranghi è nato e cresciuto, immerso nel lavoro di bisavolo. All’architetto fu assegnato il compito di trasformare le due dimore quattrocentesche nella casa dell’ingegnere e senatore Ettore Conti, che le acquistò nel 1919. Il progetto fu inaugurato nel 1922, per poi essere nuovamente ritoccato da Portaluppi per via dei danni causati dai bombardamenti del 13 e 16 agosto 1943.

La nascita della Fondazione Piero Portaluppi 

Il cuore dell’opera di Portaluppi – 133 progetti, di cui 91 ancora esistenti e 63 visibili – ha ripreso a battere nel settembre del 1999, con la nascita dell’omonima Fondazione, di cui Maranghi è direttore operativo. Il legame di sangue e l’omonimia sono state trasformate in qualcosa di più, a partire da uno scavo nel passato mosso dalla curiosità. «Mi sono chiesto cosa facesse. Ho cominciato ad aprire cassetti, trovare disegni, a pormi domande. Si è ricostruito tutto, fino alla nascita della Fondazione». 

Fondazione Piero Portaluppi è centro di ricerca e divulgazione dedicato alla produzione e alla memoria portaluppiana, che rivive in progetti e iniziative. Tra cui una pubblicazione ventura: «Non si tratta di un punto di arrivo, ma di un nuovo passaggio necessario per la conoscenza dell’opera di Portaluppi, a vent’anni di distanza dalla pubblicazione per la mostra della Triennale», ricorda Maranghi, facendo riferimento alla mostra del 2003 Piero Portaluppi. Linea errante nell’architettura del Novecento. «Oggi ha ancora un suo valore, ma è superata da tutto quello che è emerso e che abbiamo trovato, presente in una nuova campagna fotografica di edifici che non conoscevamo. Portaluppi continua a regalare tracce delle sue scorribande». 

Fondazione Piero Portaluppi – la pubblicazione con Skira

«Il progetto avrà un taglio diverso. Quando abbiamo iniziato, questo architetto era un reietto. Era obliato per il suo agnosticismo. Negli anni Sessanta/Settanta era più grave che essere fascisti. Tutti i luoghi che nel 2022 non erano ancora pubblici – penso a Villa Necchi, a Casa degli Atellani, al Museo del Novecento – sono poi diventati dei luoghi di tutti. Abbiamo avuto fortuna».

Un testo sospeso tra continuità e discontinuità: «Allora fu dato un taglio classico. Furono chiamati esperti col coordinamento di Luca Molinari e la supervisione di Guido Canella, ex allievo di Portaluppi. Allievo contro, ma intellettuale libero e onesto. Non agiografico, ma nemmeno ideologico. Oggi abbiamo chiesto a un fotografo, Ciro Frank Schiappa, di fare una campagna delle opere nel contesto attuale. Ci sono quelle note, come l’arco di Via Salvini, ma emerge anche ciò che non si conosce, con posti di dimensioni inaspettate». 

«Il libro avrà una sua contemporaneità. La scelta dei testi è il secondo punto di discontinuità» prosegue Maranghi. «C’è un saggio di Paolo Portoghesi, una trascrizione di una sua lectio tenuta per l’anniversario dei centotrenta anni di Portaluppi in Santa Maria delle Grazie. Si trova una bella intervista di Luca Guadagnino a Piero Castellini, nipote di Portaluppi, che ho l’orgoglio di aver fatto incontrare tanti anni fa». Il terzo film del regista, Io sono l’amore – che include nel cast Tilda Swinton e Alba Rohrwacher – è stato ambientato proprio tra Casa degli Atellani e Villa Necchi Campiglio, aperta al pubblico dal FAI. «Si passa poi ad una biografia inedita, che non si è mai letta, anche se in parte presentata nel film L’Amatore. Poi c’è Portaluppi al 2022, con la fotografia di tutte le opere fatte da Ferruccio Luppi, custode assoluto della memoria portaluppiana, e responsabile del nostro archivio».

Il rischio di prestare il fianco alle critiche dei tecnici non desta preoccupazione: «Qualcuno potrebbe storcere il naso dal punto di vista scientifico. Io dico di no, perché c’è tutto. Senza trucchi o ciprie. Poi ognuno decide come prenderlo. Portaluppi è sfuggente, errante», motiva Maranghi. «È inutile provare a dargli una forma». 

Anche il tentativo di confinare l’impronta di Portaluppi alla sola Milano si scontrerebbe con la realtà dei fatti. Se ne è accorto lo stesso Maranghi, che ha ‘incrociato’ Portaluppi anche in Argentina: «Passando in una via di Buenos Aires ho avuto la percezione di vedere dei segni tipicamente portaluppiani. Allora ho parlato col nostro archivista, che mi ha mandato i riferimenti di un progetto fatto e inviato per dei commercianti di tessuti che volevano una sede di prestigio in quella città. Ora locazione e nome della via sono cambiati».

L’idea che il pronipote ha del bisnonno rispecchia questa fluidità: «Non sono ancora così sicuro che mi sia simpatico. A volte lo è, a volte meno. Sono certo che non mi piace sempre. Non direi mai la stessa cosa di architetti molto più coerenti. Forse lo potrei dire di Ponti».

Piero Maranghi: la carriera e l’Almanacco di bellezza

Nel corso della sua carriera, Piero Maranghi ha messo insieme esperienze professionali dalla regia all’editoria, passando per la produzione di documentari e docu-film. È amministratore delegato e direttore di Classica HD, canale Sky interamente dedicato alla musica classica, che in pieno lockdown ha dato i natali – tra le varie cose – alla trasmissione Almanacco di bellezza

«Durante la pandemia ci siamo inventati una trasmissione. Successivamente questa rubrica è diventata un podcast per Intesa Sanpaolo. Dopo sono arrivati gli amici di Rizzoli, chiedendoci di farne un libro. Rispetto al programma è più asettico, non ha quello spirito ‘snob’, per dirla con Aldo Grasso». 

Il libro in questione, Almanacco di bellezza. Divagazioni quotidiane e curiosità dal calendario, è realizzato con l’esperto d’arte Leonardo Piccinini, che affianca Maranghi nella trasmissione. 447 pagine per 366 giorni (è bisesto) di cultura tra storia, arte, letteratura, cinema e televisione, teatro, musica, architettura, danza, sport. «È una sorta di calendario. Per ogni giorno ci sono due racconti legati alla storia della bellezza, uniti ad altre indicazioni che si possono ascoltare, leggere, vedere per ulteriori approfondimenti. È uno spariglio continuo. Quando parliamo della morte del povero Re Cecconi, calciatore della Lazio scudettata che per un equivoco entrò in una gioielleria e fu freddato dal proprietario, mettiamo come musica il valzer Re Cecconi di Raoul Casadei del ’73. L’approccio è disruptive. Nulla è fatto in maniera troppo ortodossa».

«Abbiamo fatto un lavoro serrato, con il vantaggio di avere una copiosa redazione a darci una mano, e un grafico, Giuseppe Ragazzini, che ha illustrato il libro. Stefano Lucchini, che firma la prefazione, ci ha poi spinti a fare del nostro meglio» aggiunge Maranghi. 

Cosa si intende con bellezza? «Nella bellezza includiamo la crudeltà del mondo. Per noi è anche raccontare cose terribili che sono accadute, nella misura in cui la memoria ha un valore assoluto. Raccontiamo tanti episodi che hanno in realtà contorni tragici».

Si rievocano momenti storici come la ritirata dell’armata italiana in Russia – «con tutti i suoi drammi, le scarpe di cartone, il congelamento…» –, l’olocausto e l’attacco terroristico alla redazione di Charlie Hebdo. Nel quadro dei contenuti trova spazio anche l’intrattenimento. «Se nella prima parte della puntata si racconta di Charlie Hebdo, nella seconda si cerca di avere un argomento più leggero».

La Milano di Piero Maranghi

Il Piero pronipote è cresciuto di fronte a Santa Maria delle Grazie, in uno dei quartieri meno investiti dai cambi di pelle del capoluogo lombardo. «I luoghi della mia infanzia sono rimasti gli stessi. Lo skyline è cambiato – e lo percepiamo ormai da ogni angolo di Milano –, ma il Bramante resta lì, e non è contaminabile da null’altro. Non per una questione di snobismo: vedo quella cupola da quando ho memoria e continuo ancora oggi a scoprirla. Ogni volta che giro per Milano con Leonardo Piccinini è come se rivedessi le cose per la prima volta». Il pensiero va a quegli angoli della città scomparsi per sempre, agli spazi che non gli parlano più. «Sono sparite le macerie della guerra. In alcuni angoli del centro di Milano sono rimaste per un sacco di anni» ricorda.

«Mia madre era senza patente, mio padre lavorava sempre, e le vacanze le facevo spesso col treno. La Stazione Centrale per me era un luogo di fascino, stimolava la mia immaginazione. Oggi penso a queste rampe spaventose che salgono e scendono, in nome di una vocazione commerciale che lascia il tempo che trova. Ho la sensazione che i negozietti facciano fatica. Non capisco dove fossero le sovrintendenze deputate a vietare l’insediamento negli spazi pieni di amianto. Questo, rispetto alla mia infanzia, è un luogo che amo molto di meno». 

Lo stesso vale per un’altra istituzione cittadina, lo stadio di San Siro, prossimo alla sostituzione. «Si può buttare giù. Il catino del Meazza prima maniera – precedente al completamento del terzo anello, aggiunto in occasione del Mondiale di Italia ’90, ndr – era un’architettura perfetta. Oggi tutta questa battaglia ideologica mi sembra anacronistica. San Siro è una composizione di cose che fanno a pugni tra di loro. Il fatto che l’occhio abbia questo squarcio è sempre stato un vulnus della nuova forma».

Piero Maranghi: la formazione culturale

Dall’opera all’architettura, dal teatro alla storia, Maranghi si è confrontato con varie branche della cultura. «Io sono un ignorante, con un percorso scolastico spaventoso, ma con una curiosità crescente negli anni. L’esperienza mi ha permesso di trovarmi di fianco a Leonardo Piccinini, di fare un cartone animato con Daniel Barenboim e di farmi spiegare da lui come suonano Mozart e Beethoven, o di fare il regista d’opera con Gavazzeni e di vedere qual è il significato più profondo della Bohème di Giacomo Puccini».

Nessun disamore dopo tutti questi anni? «Il tempo passato tra documenti, copioni, piani prove, fogli Excel, sette puntate a settimana, l’approfondimento dei temi negli ultimi cinque sei anni, in mezzo a molte difficoltà – anche imprenditoriali – mi ha tolto tantissima lettura. Non sono stufo di leggere, ma faccio molta fatica a ritagliarmi quello spazio sacro, anche in vacanza. In questo ha inciso negativamente il mio passaggio inconsapevole dal telefonino vecchia maniera, quello che usano ancora i potenti, allo smartphone. Pian piano sono stato risucchiato nel buco nero, dove si finisce sempre per fare qualcosa».

Considerato il posto di rilievo che l’opera occupa nel vissuto passato e presente, viene naturale sondare l’apertura di Maranghi rispetto alle novità a cui si stanno aprendo sempre più palcoscenici, non senza polemiche. Basti pensare alla regia di Davide Livermore per il Macbeth di Giuseppe Verdi portato alla scorsa Prima della Scala. «Io sono aperto a tutto ciò che è fatto con intelligenza e aderenza al testo. La trovata mi fa orrore», afferma Maranghi. «Non ho pregiudizi. Mi siedo e guardo lo spettacolo. Se davanti a regie contemporanee trovo un’opera non ambientata nel suo naturale contesto, tempo e spazio, ma il testo e la musica sostengono questa idea, mi va benissimo. Trovo insopportabile quando tutto è solo un esercizio per accalappiare il pubblico. Non funziona mai».

Maranghi è stato più volte interrogato sulla scomparsa delle famiglie milanesi, e su quanto sia costata alla città questa sottrazione. «Più che altro Milano ha perso le grandi famiglie culturali. Se mi avessero chiesto vent’anni fa di citare alcuni segmenti della nostra città, non avrei avuto difficoltà a fare cinque nomi, come Strehler, Calasso o Gae Aulenti».

Piero Maranghi sulla scena culturale di Milano 

Oggi la Milano della cultura è chiamata a confrontarsi con i propri punti deboli. «Abbiamo commesso un errore: privatizzare la cultura. Le fondazioni si sono diffuse a macchia d’olio. I privati hanno voluto fare il loro ingresso nella stanza dei bottoni della cultura senza avere le carte in regola. Questo è un tema su cui riflettere. Un consiglio di amministrazione di un museo o di un teatro che ha bisogno anche dell’intervento di privati dovrebbe prevedere di inserire o di figure capaci e consapevoli».

Il futuro dell’imprenditoria culturale a Milano. «Posto che tra due Natali il virus se ne vada, la vedo bene per il mercato e l’utenza. Male per la politica. Milano è diventata una città con un bacino di utenti culturali, ancor di più ramificato anche all’estero, ma la politica culturale in Italia è latitante. Si muove per slogan. Sono ottimista per lo spirito del nuovo assessore Sacchi. Milano faceva delle mostre che non erano dei calci di rigore per gli incassi. Questo nuovo corso con Sacchi sembra che possa regalarci qualcosa di più concreto e visionario». 

Piero Maranghi 

Nel corso della sua carriera, Piero Maranghi ha messo insieme esperienze professionali dalla regia all’editoria, passando per la produzione di documentari e docu-film. È amministratore delegato e direttore di Classica HD, canale Sky interamente dedicato alla musica classica, che in pieno lockdown ha dato i natali – tra le varie cose – alla trasmissione Almanacco di bellezza. Il programma è poi diventato un libro, pubblicato a fine 2021 da Rizzoli.

Filippo Motti

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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