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Viticoltura e biochar: le sperimentazioni sul campo in terre toscane

Energia pulita, aumento della produzione e miglioramento del suolo: l’uso del biochar prolungato nel tempo nella tenuta Braccesca di Antinori. L’impianto di pirolisi di Frescobaldi

Biochar: a cosa serve

L’infertilità del suolo e un problema che il modello di agricoltura intensiva sta velocizzando. Secondo l’ISPRA ogni anno in Italia sono utilizzate centotrenta mila tonnellate di pesticidi che contengono circa quattrocento sostanze diverse tra erbicidi, fungicidi e insetticidi che causano una conseguente contaminazione delle acque superficiali e sotterranee. Ogni anno (dati delle Nazioni Unite) scompaiono ventiquattro miliardi di tonnellate di terra fertile con un tasso di erosione tra le dieci e le quaranta volte superiore alla capacità di rigenerazione.

Entro il 2050, se non verranno modificate le tecniche agronomiche e gli ordinamenti colturali il quaranta percento dei terreni coltivati intensivamente andrà perso. La rinaturalizzazione del terreno, la sua ri-fertilizzazione e la sua capacità di resilienza sono obiettivi che l’agricoltura potrebbe avvicinare grazie all’uso contestualizzato del biochar. Per definire un parametro di applicazione e dare risposte concrete sull’integrazione e l’inserimento del biochar nel suolo in campo agronomico, servono sperimentazioni operative di lungo periodo.

Biochar e viticoltura

La viticoltura è uno dei settori agricoli più sviluppati nella regione Toscana. Non a caso Uniseco, «il progetto di ricerca europeo che si pone l’obiettivo di favorire una migliore comprensione delle barriere politiche e socioeconomiche che impediscono una più estesa attuazione di approcci agro-ecologici nei sistemi agrari dell’UE, al fine di identificare le strategie di gestione più efficaci per l’agricoltura europea», lo scorso aprile 2021, dedica spazio all’Italia nel caso di studio dei territori del Chianti per capire come migliorare la sostenibilità dell’uso del suolo per la transizione verso l’agro-ecologia. L’impegno per rintracciare soluzioni di sostenibilità nei vigneti toscani, partendo dal biochar, è stato argomento di sperimentazione sul campo già nel 2009.

A guidare questo approccio, i ricercatori del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e dell’Istituto di Bioeconomia di Firenze. «Ci avvicinammo al biochar nel 2007 e iniziammo a farci domande sulle sue possibili applicazioni in agricoltura. Nelle prime sperimentazioni, considerata anche la scarsa informazione su questo argomento all’epoca, sono stati commessi degli errori che ci hanno indirizzato nel futuro», spiega Francesco Primo Vaccari, ricercatore agronomo del CNR IBE di Firenze e vicepresidente dell’Associazione ICHAR fondata nel 2009 che insieme a Lorenzo Genesio, Franco Miglietta e Silvia Baronti hanno eseguito le sperimentazioni. 

«La maggior parte delle ricerche scientifiche sul biochar del tempo si basavano sul grano e per la durata di un anno e mezzo in laboratorio», sottolinea Vaccari. Sperimentazioni e analisi di laboratorio portano dati, ma non danno una prospettiva sul lungo periodo, un aspetto invece fondamentale per quanto riguarda l’applicazione del trattamento con biochar nel suolo: che è irreversibile. «Nel 2009 iniziamo sperimentazioni per raggiungere uno scopo preciso, consci del fatto che se si parla di ammendamento del suolo va capita la condizione del suolo reale, per poter conseguentemente scegliere anche il tipo di biochar, la quantità e funzionalità del trattamento». Nello stesso anno parte la sperimentazione a lungo termine alla Tenuta Braccesca, proprietà della famiglia Antinori dal 1990. 

La tenuta Braccesca di Antinori

Il nome della tenuta si deve all’antica fattoria dei conti Bracci, che si trovava all’interno dei terreni, (lo stemma nobiliare della famiglia prevede un braccio coperto da armatura in atto di reggere una spada). Si tratta di 340 ettari di terreno in cui convivono l’anima tradizionale e storica del Nobile Montepulciano e quella innovativa dei Syrah di Cortona. Quest’ultima zona, è caratterizzata da terreni con una percentuale di limo e argilla superiore a quella della sabbia. In estate i suoli tendono a compattarsi cercando di ottimizzare la disponibilità idrica. Il vitigno che cresce in quest’area non risente particolarmente di questa carenza, anzi riesce a produrre vino di qualità nonostante lo stress per la pianta.

«Il ph di quel terreno si aggira intorno al 5 – 5,5. In quelle condizioni la vite cresce benissimo», continua Vaccari: «Io chiamo la vite la ‘piantaccia’ perché più la fai soffrire e più lei dà il meglio, adattandosi ai climi. Il problema è che più stressi la vite e più questa dura poco. Per questi motivi abbiamo pensato di provare a introdurre il biochar come ammendante per il terreno. Nella tenuta venivano fatti dei trattamenti agronomici classici come la letamazione e i trattamenti con il carbonato di calcio. Quando abbiamo proposto di utilizzare il biochar in alcune aree ci hanno creduto e ci hanno messo a disposizione mezzo ettaro di terreno». 

Lampoon sul Biochar. La Tenuta Braccesca

Il biochar per la tenuta Braccesca proveniva da residui di potature di alberi da frutto dell’Emilia-Romagna. L’applicazione è avvenuta in tre fasi: un’area è rimasta vergine e non ha ricevuto il trattamento con biochar, una seconda ha ricevuto un trattamento con ventidue tonnellate per ettaro di biochar e una terza che ne ha ricevute quarantaquattro tonnellate per ettaro. Nel 2009 i primi trattamenti, nel 2010 una redistribuzione. «La dose consigliata va da dieci a dodici tonnellate per ettaro. Volevamo esasperare il trattamento per vedere la differenza, spingendoci oltre le dosi suggerite. Ogni anno che passava notavamo dei miglioramenti nella pianta, la vite stava meglio, produceva meglio – continua Vaccari.

Nel corso del tempo capiamo anche che il biochar funziona soprattutto negli anni più siccitosi rispetto agli anni con una cadenza di pioggia normale. Questo è un dato fondamentale perché fa capire come il biochar serva dove e quando è necessario il suo intervento, mentre qualora le coltivazioni siano ottimali questo non porta un grande vantaggio». Un altro dato importante è l’effetto nella parcella trattata con maggiori tonnellate di biochar, «che non è direttamente proporzionale alle tonnellate usate». In entrambi i casi (ventidue e quarantaquattro tonnellate) si assiste ad un miglioramento del terreno, all’aumento della riproduzione di vita del suolo che si traduce in maggiore produttività della vite, un valore che non è inversamente correlato con il decremento della qualità dell’uva, rimasta tale. «In agricoltura spesso c’è questo compromesso, se spingi tanto su produttività la qualità diminuisce. Viceversa, in produzioni più piccole la qualità è migliore. In questo caso l’aumento del sessantasei percento sulla produttività non ha creato un decremento della qualità dell’uva».

A distanza di undici anni dall’inizio della sperimentazione, si notano ancora degli effetti positivi sulla produttività e soprattutto sulla modifica dei parametri del suolo: il ph si è spostato verso la neutralità con valori tra il 6.6 e il 6.8 portando anche ad una maggiore disponibilità di macronutrienti. «Riportare questi risultati al pubblico non sempre è facile. L’aumento della produttività in questo contesto non può significare una soluzione tout court per la viticoltura in Italia, vanno intesi quali sono i limiti del sistema produttivo per l’uso del biochar», sottolinea Vaccari. 

Il nodo del mercato del biochar

I dati sulla produzione e sul miglioramento del suolo non sono stati incrociati dal punto di vista enologico. «Da punto di vista enologico non ci sono state differenze sostanziali, ci siamo soffermati all’analisi dell’uva (Merlot ndr) nella vendemmia e alla sua maturazione, legata al maggiore benessere della pianta. Più che un aspetto vinicolo è un discorso agronomico», spiega l’agronomo e direttore della produzione Antinori Andrea Bencini. Gli effetti positivi sulla tessitura del suolo cortonese resteranno parte della sperimentazione. Antinori non ha continuato a trattare i terreni a biochar.

«Il motivo per cui non si va avanti è che il materiale è difficilissimo da reperire e il suo costo come ammendante è molto elevato». Una soluzione potrebbe essere produrre il proprio biochar dalla biomassa ottenuta dalla potatura dei vigneti e utilizzarla come alimentazione di un impianto di pirolisi. Il limite a realizzarlo, affrontato anche dalla cantina, che aveva considerato questo investimento, sta nella quantità di materiale necessario per gestire un impianto da 200 kilowatt – che richiede almeno duecento chili di biomassa secca all’ora per undici mesi l’anno. 

L’impianto di pirolisi di Frescobaldi

Produrre energia pulita, il punto di partenza della cantina Frescobaldi, che ha realizzato un impianto di pirolisi e che grazie a questo ottiene syngas, energia utilizzata per il riscaldamento e l’elettricità delle strutture. Mentre il suo scarto di processo, il biochar – è ammendante per vigneti e uliveti. «Siamo all’inizio della nostra sperimentazione, l’impianto è stato messo in funzione grazie ai residui delle nostre foreste nel 2018», spiega l’agronomo di Frescobaldi Daniele Settesoldi. La centralina messa in funzione è di duecento kilowatt, si trova nel Comune di Pontassieve, provincia di Firenze. Una scelta geografica strategica selezionata per la sua vicinanza con la fonte inesauribile di biomassa necessaria per alimentare l’impianto: un bosco di proprietà della cantina Frescobaldi che si trova tra Pelago e Rufina, a circa quindici chilometri dall’impianto. 

La foresta, certificata PEFC dal 2009, è stata la seconda (in termini di tempo) in tutta la Regione. «Anche se la nostra produzione singola è bassa, la nostra centrale è molto efficiente: si produce l’energia termica per gli uffici (che contano oltre cento persone), si condiziona tutta la cantina e si produce energia elettrica che ci rende quasi autosufficienti», sottolinea Settesoldi. A questo, va aggiunto l’impianto fotovoltaico che mediamente abbatte duecentoventisei tonnellate di CO2. In un anno, dall’impianto di pirolisi alimentato con il legno della foresta si abbattono seicentonovanta tonnellate di CO2 e si ricavano circa cento tonnellate di biochar da utilizzare come ammendante nel terreno.

«È da soli tre anni che usiamo il biochar come trattamento su vigneti e uliveti, quindi per il momento i dati su questo uso sono scarsi», continua l’agronomo Settesoldi, «Lo abbiamo indirizzato su terreni che a causa di operazioni di scasso e ruspatura erano meno fertili o in zone collinari dove c’è bisogno di una maggiore ritenzione idrica in superficie. Per il momento, i risultati sono molto buoni».

L’obiettivo che i ricercatori di ICHAR e studiosi di biochar stanno cercando di promuovere, per superare il gap del mercato e consentire una maggiore diffusione e realizzazione di impianti di pirolisi e consentire alle aziende agricole di avere una fonte di energia pulita da utilizzare internamente e un prodotto da usare e vendere con facilità, è quello di pensare ad impianti più piccoli. «È una visione romantica ma non lontana dalla realtà. Pensare ad un impianto di venti, venticinque chilogrammi che possa essere alimentato con diverse biomasse (multi-materiale) frutto di potature diverse e disponibile come un caminetto di casa, potrebbe essere la soluzione», spiega Francesco Primo Vaccari.

«L’azienda agricola italiana media con un impianto di queste dimensioni può produrre calore per riscaldare la casa, l’agriturismo o il caseificio annesso – e se non vende lo scarto di produzione (cioè il biochar ndr) lo usa come valorizzazione per i suoi terreni colturali. Nel 2009 esistevano incentivi per la produzione di energia elettrica verde ed erano partiti dei progetti per la realizzazione di più impianti di pirolisi, ad oggi fermi». La speranza è che con la recente riscoperta dei benefici del biochar e gli incentivi per il Green New Deal, si possano concretizzare questi progetti. 

Viticoltura e biochar: progetti di sperimentazione

Oltre ai casi di Antinori e Frescobaldi, nel 2019 è iniziato un altro progetto toscano, sul vigneto dell’azienda Poggio Torselli a San Casciano in Val di Pesa, nel cuore del Chianti Classico fiorentino. «Si tratta di un vigneto particolare, e un territorio dove è vietata l’irrigazione. Il problema di quest’area non era di ph ma la struttura della terra, molto argillosa e difficile da lavorare», spiega Vaccari. «Il biochar in questo caso è stato inserito per dodici tonnellate nell’interfilare delle vigne. Da tre anni vediamo un aumento della produzione del venti percento e una facilitazione nella lavorazione della terra, che richiede anche un minor uso delle macchine in campo. Questo solo per la capacità di assorbire l’acqua nel terreno del biochar». A Cesa, in provincia di Arezzo, Tenuta Sperimentale di Ente Terre Regionali Toscane, invece, il trattamento a biochar è stato inserito in fase di impianto delle vigne, distribuito per tre chili a buca. Anche se è ancora presto per vedere i primi grappoli, al secondo anno di crescita delle barbatelle, si nota già un aumento dell’impianto radicale della pianta e un suo sviluppo vigoroso. A Ravenna invece, è in corso un progetto in collaborazione tra ICHAR e l’Università di Bologna, di respiro internazionale. 

Mariavittoria Zaglio

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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