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Zapatos Rojos curato da Lorena Cordeddu e Consuelo Dess, Cagliari, arte pubblica contro la violenza sulle donne
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I diritti delle donne, dall’Asilo Mariuccia alla Milano di oggi

La nascita di pool specializzati in violenze e reati sessuali, la difficoltà di giudicare e restare stabili mentalmente, una vita a fianco degli ultimi

Lampoon: intervista al giudice Jole Milanesi

Il 19 marzo 1980 tre esponenti del gruppo armato Prima linea-CoCoRi (Comitato Comunisti Rivoluzionari) uccidono il magistrato Guido Galli in piazza Susa, a Milano, colpevole di aver concluso la prima maxi-inchiesta contro il terrorismo rosso. Dopo essere stato colpito alla schiena, Galli viene finito con due colpi alla nuca. La morte del magistrato e accademico chiude a Jole Milanesi, sua assistente alla cattedra di criminologia all’Università degli Studi di Milano, le prospettive di continuare la carriera universitaria. Milanesi si serra in casa a studiare e dopo un anno e mezzo prova il concorso di Magistratura: a 29 anni, nel 1981, è giudice del Tribunale di Milano. 

Dopo essere passata per diverse sezioni penali del Tribunale, negli anni novanta Milanesi è coinvolta nella Sezione specializzata in reati sessuali – nel frattempo in Procura era stato costituito un pool specializzato per i reati sessuali e la tutela dei soggetti deboli guidata da Piero Forno. «In un attimo quella materia che prima non esisteva, ha cominciato a essere rilevante. I processi aumentavano ed emergevano alcune caratteristiche peculiari di questo tipo di reati», racconta Milanesi. «Ci siamo accorti che maltrattamenti e violenze erano reati trasversali: succedevano e succedono tra italiani e stranieri, tra persone di classi meno abbienti e di grandi capacità economiche. Col tempo – grazie al cambiamento nella sensibilità dei media e della società civile – è anche cresciuta la volontà di denunciare, e da una decina di anni si è creata nella società una consapevolezza che incoraggia sia a denunciare sia a considerare reato alcuni comportamenti che prima erano accettati dalla società come atti che potevano essere tollerati e scusati dalle donne»

Reati in ambito familiare

Una delle difficoltà per forze dell’ordine e magistratura, all’inizio, è stato scontrarsi con una cultura che non tollerava di sentir parlare di tossicità e patologie nell’istituzione familiare, eppure la maggior parte dei reati contro i soggetti deboli avvengono in famiglia: «Nel caso delle donne, la famiglia spesso costituisce anche un freno alla denuncia. Prima che si arrivi alla violenza carnale o al femminicidio si può osservare un processo di strutturazione dei reati finali, una serie di reati spia: ingiurie, blende lesioni, violenza psicologica, attraverso accuse di incapacità di svolgere i propri ruoli. Inoltre, c’è il problema economico: spesso le donne sono a casa e sostengono il peso di tutta la famiglia senza essere economicamente autonome (in Italia lavora solo il 50.5% delle donne): la maggior parte del lavoro domestico è svolto da loro (secondo le ultime statistiche circa il 70%), compresa la gestione dei minori».

Reati di violenza sulle donne

Nei primi tempi nella rete della Procura rimanevano i fatti più gravi, poi la rete si è andata affinando. Alla costituzione del pool della Procura e di una sezione specializzata sia in primo grado sia in Corte d’Appello, è seguita la creazione di pool specializzati anche all’interno di tutte le forze dell’ordine. La materia è delicata perché è delicata la parte lesa: 

«Le statistiche dicono che una donna arriva a denunciare solo dopo circa 5-9 tentativi di approcciare l’autorità giudiziaria. La donna porta con sé remore, ha la speranza per sé e per i figli che le cose cambino, sia stato un caso, non si ripeterà, addirittura sviluppa un senso di responsabilità rispetto all’evento. Le parti lese sono soggetti difficili da trattare, spesso non formalizzano la querela, cambiano idea per paura. Mi è capitato spesso che donne, magari addirittura bruciate dal marito, lo rivolessero a casa agli arresti domiciliari per diverse ragioni: era l’unico a portare i soldi a casa, la famiglia altrimenti si sarebbe spezzata. In caso di figli maschi, questi spesso si schierano a favore del padre, seguendo la stessa subcultura di violenza assorbita in famiglia, accusando la madre di voler distruggere la famiglia».

Denunce di violenza a soli scopi mediatici

Oggi c’è chi si preoccupa del pericolo opposto: denunce di violenza a soli scopi mediatici, la diffusione di una cultura del sospetto in tutte le dinamiche tra sessi. «Nella realtà la magistratura si occupa di reati: questo non è sempre chiaro. Se vi è un’ipotesi di reato significa che c’è già una struttura di elementi su cui muoversi: elementi indiziari o prove. Alla denuncia segue una valutazione, a cui può seguire una condanna o un’assoluzione. Io ho anche assolto, ovviamente. Sappiamo c’è sempre stato un modo di gestire la relazione uomo-donna di un certo tipo, dal fischio per strada a una scorretta gestione dei rapporti sul luogo di lavoro: queste sono cose che sicuramente vanno condannate moralmente, ma non sempre arrivano a costituire reato»

Un altro problema sono i processi mediatici: «Se con il lavoro della magistratura e sociale siamo riusciti a tirare fuori alcune problematiche, il processo mediatico le affoga. Questo è la rovina del processo perché inquina il senso della giustizia, fa sentire sempre e solo poche voci, di solito di chi fa più rumore. Un processo, al contrario, è un’operazione complessa in cui si sente la parte lesa, l’imputato, i rispettivi avvocati, i testi. Abbiamo un sistema estremamente garantista, il problema maggiore oggi è la tempestività nel giudizio e nella sentenza, che spesso manca, eppure questa dovrebbe essere un momento qualificante del fare giustizia: se vengo condannato 8 o 10 anni dopo il fatto, quando la mia vita è cambiata, la condanna ha un senso diverso. I tempi lunghi fanno perdere fiducia alle persone. Dall’altro lato non sarei neppure d’accordo a giudicare entro un anno dall’evento, magari con la stampa che preme, salvo ovviamente per i reati per direttissima».

Jole Milanesi nel 2009 è diventata Consigliere della Corte d’Appello di Milano

Milanesi ha continuato a occuparsi di giudizi per reati sessuali. «Nel mio lavoro ho visto e vissuto cose agghiaccianti: partecipai al processo Operazione Mangiafuoco, con venti bambini violentati, maltrattai e resi schiavi da un’intera tribù. All’inizio è durissima, soprattutto saper misurare in modo equo la pena. Ricordo un uomo che tornava a casa e aveva un bastone di gomma pieno di sabbia dietro la porta con cui massacrava di botte la moglie in posti non visibili: tutti i giorni per sette anni, fino a quando questa per sbaglio si è scoperta, il fratello l’ha vista e con il padre l’ha costretta a denunciare. Qual è la giusta pena? Ciascuno di noi ha uno slancio punitivo o protettivo, invece chi giudica deve mettere a tacere ogni slancio e rimanere il più terzo possibile, valutando solo le prove portate a giudizio. La professionalità ti aiuta a misurarti e misurare il gesto in relazione ad altri fatti molto complessi che ti capitano sotto gli occhi tutti i giorni. In Corte d’Appello si ha a che fare con una violenza carnale al giorno, oltre ai reati di minore impatto, come lesioni o lesioni aggravate»

Dopo tre anni in Corte d’Appello nella sezione reati sessuali Milanesi è passata alla sezione reati contro il patrimonio: «È diverso vedere furti e rapine o reati contro donne e minori. Per giudicare servono testa e codice, e per restare saldi, terzi ed equilibrati, spesso è opportuno fare ricorso privatamente a un supporto psicologico. Non è previsto un sostegno psicologico pubblico per il personale giudiziario che si occupa di questo tipo di reati: credo invece sarebbe utile».

Il ruolo dei Giudici Tutelari

Da giovane Milanesi desiderava di fare l’avvocato dei poveri e aiutare i più deboli. Ha raggiunto l’obiettivo, soprattutto durante i sei anni in cui è stata Giudice Tutelare: «Questa figura è quella che oggi più si avvicina ai problemi degli ultimi, dei derelitti, quelli che non hanno niente o vengono assaltati dai parenti: è un lavoro bellissimo, a volte ti senti Robin Hood». I Giudici Tutelari sono pochi e il numero degli assistiti enorme, circa 1500 ogni giudice. Il Giudice Tutelare può fare molto perché ha il potere decisionale del caso, per esempio: quando i figli chiedono l’interdizione di un genitore per poterne gestire il patrimonio; se viene trovata una persona per strada che non ha nessuno e può chiedere pensione o collocazione; nella gestione del patrimonio di persone che non sono in grado di farlo; per l’autorizzazione di aborto alle minorenni; per l’amministrazione di sostegno o la tutela dei malati mentali. È al termine di questa esperienza che Milanesi comincia a occuparsi di sociale.

Fondazione Asilo Mariuccia 

La prima esperienza in un’associazione è stata una collaborazione esterna con l’associazione Vida a Pititinga di Enrico Bertolino, che si occupa dei bambini e delle famiglie di una piccola comunità di pescatori nel nord-est del Brasile. Poi con alcuni amici Milanesi fonda l’associazione culturale Principia e nel 2013 costituisce l’associazione Amici dell’Asilo Mariuccia. Oggi è Past Presidente dei Benemeriti e Membro del comitato scientifico della Fondazione Asilo Mariuccia: «L’Asilo Mariuccia usciva da un periodo di cattiva amministrazione, era appena stato nominato presidente il generale Camillo de Milato, uomo di garanzia e trasparenza. Con alcuni amici, mettendoci la faccia, abbiamo costituito l’associazione degli Amici, che supportava l’operato della Fondazione, la quale si occupa di mamme e bambini affidati dal tribunale dei minorenni e collocati dal Comune di Milano. I nuclei famigliari vengono seguiti sia nel primo periodo post eventi traumatici sia in un secondo momento per il reinserimento in società». In Lombardia è diventata proverbiale l’erronea espressione ‘Non siamo mica all’Asilo Mariuccia’ a indicare ironicamente situazioni infantili: il termine asilo in realtà non era riferito all’infanzia ma all’accoglienza degli ultimi. L’istituzione è stata fondata nel 1902 per iniziativa di Ersilia Bronzini Majno, per onorare la memoria della figlia Maria, detta Mariuccia, morta a 13 anni di difterite. L’istituto si occupava di accogliere giovani donne cresciute in ambienti ‘moralmente malsani’, minorenni con precedenti di prostituzione e donne di servizio ‘disonorate’ e lasciate in mezzo a una strada dai loro datori di lavoro.

A cavallo tra Ottocento e Novecento a Milano nascevano diversi istituti di questo tipo grazie a una borghesia illuminata attenta ai problemi degli ultimi, con impronta filantropica e socialista. Anche il marito di Ersilia Bronzini Majno, Luigi Majno – rettore dell’Università Bocconi, assessore all’istruzione del comune di Milano e deputato socialista dal 1900 al 1904 – fu presidente dell’appena nata Società Umanitaria, che nei primi anni del secolo scorso creò edilizia popolare completa di strutture educative (antesignane degli asili nido condominiali) e due quartieri modello, rispettivamente in via Solari e viale Lombardia, dodici palazzi con circa duecento appartamenti e vasti cortili interni.

Fondazione Negroni Prati Morosini

Con una missione analoga ma più recente è la Fondazione Negroni Prati Morosini, in cui Jole Milanesi è stata nominata dal Sindaco di Milano componente del Consiglio di amministrazione nel dicembre 2020. La Fondazione possiede beni e terreni nel territorio attorno a Milano il cui ricavato è dato a rotazione a diversi progetti sociali e culturali, è stata creata negli anni Sessanta del Novecento e è intitolata a Vincenzo e Alessandro Negroni Prati Morosini, anche loro esponenti della borghesia ottocentesca legata ai moti risorgimentali e alla filantropia. Jole Milanesi è anche presidente del Circolo di Cultura e Scienza Piri Piri.

Irene Simi de Burgis, figlia di Jole Milanesi

A portare avanti il suo impegno nel sociale oggi è anche la figlia Irene Simi de Burgis, 34 anni, psicologa clinica psicoterapeuta, e componente del comitato scientifico dell’Associazione Fare X Bene, che nell’aprile 2021 ha aperto il primo sportello di ascolto, informazione, accoglienza e consulenza psicologica offerto alle donne vittime di violenza all’interno di un grande magazzino, il Coin di Piazza V Giornate. Qui le donne possono denunciare violenze senza destare sospetti, con la scusa di fare acquisti. «Io faccio mille conferenze, ma non possiamo continuare a parlare tra noi intellettuali o pseudo tali, le donne devono parlare alle donne in posti vicini alle donne», spiega Milanesi. «Una vittima di violenza o maltrattamento più rimane in casa e più è in difficoltà, diventa più povera non solo economicamente ma anche concettualmente; se invece va al bar, al mercato, parla con le amiche, ha relazioni sociali, può respirare un’aria diversa da quella che la opprime a casa. In questo modo è più facile che prenda consapevolezza di ciò che le sta accedendo e denunci».

Omicidi in Italia

Nel 2020 in Italia si è toccato il minimo storico di omicidi: 271. Nel 1990 erano 1633. L’Italia è tra i paesi più sicuri al mondo per il rischio di essere vittime di omicidio volontario. Il numero di donne vittime di omicidio volontario invece è stabile: 133 nel 2018, 111 nel 2019, 112 del 2020. La serie storica degli omicidi per genere mostra che negli ultimi 25 anni sono diminuiti gli omicidi di uomini (da 4,0 per 100.000 maschi nel 1992 a 0,8 nel 2017), mentre quelli con vittime donne sono stabili (da 0,6 a 0,4 per 100.000 femmine). Dei 315 omicidi in Italia nel 2019, 150 sono avvenuti in ambiente familiare o affettivo (57 vittime uomini, 93 donne). I condannati per omicidi nel 2018 sono stati per il 96,6% uomini, per l’3,4% donne (dati Instat)

Nicola Baroni

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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