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Gabriella Crespi, Table set della collezione Gocce oro, 1974
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Gabriella Crespi: una vita combattuta fra cielo e terra

Il 1987 segna l’anno della svolta: Gabriella Crespi parte per l’India – il vero perché le impedisce di essere felice

La Ford station wagon di Gabriella Crespi al Museo Nazionale dell’Automobile di Torino 

In occasione del centenario della nascita di Gabriella Crespi, l’Archivio Crespi ha donato al Museo Nazionale dell’Automobile di Torino la Ford station wagon che la designer era solita guidare negli anni Settanta e Ottanta. La caricava sempre di progetti, mock-up, campioni e prototipi da mostrare ai suoi artigiani. Da qui l’idea di realizzare l’installazione Luxury in the Trunk nel Museo torinese, con l’auto in posizione centrale e una selezione di opere rappresentative di Crespi. Una galleria fotografica racconta per immagini l’universo di Gabriella Crespi.

Gabriella Crespi: il design del Novecento

Partiamo dalla fine. Dalla fotografia di una donna, il volto nascosto dietro gli occhiali da sole, e in testa un capello dalle larghe falde. All’apparenza vezzosa. Nulla di tutto ciò. Gabriella Crespi, ha attraversato il Novecento, ne ha assorbito ogni stilla. Aveva fatto del silenzio la sua scelta di vita, come ci racconta il suo ultimo intervistatore. A quell’età, con quello che aveva dato e preso dal mondo, sapeva guardare oltre.

Un’esistenza, la sua, per dirla all’americana, larger than life. Aveva conosciuto il jet set internazionale, da Grace Kelly alla famiglia Onassis, le sue opere erano nelle residenze dello scià di Persia o in quelle della famiglia Rothschild. Nel 2008 – di anni Gabriella ne ha ottantaquattro – Stella McCartney le chiede di realizzare per lei una riedizione limitata di alcuni suoi gioielli creati oltre trent’anni prima. Perché Gabriella è una designer, che da oltre vent’anni non disegna più nulla – eppure non si sono dimenticati di lei. Chi per passione, chi, forse, per rimediare a un affrettato oblio. 

La vita e lo stile di Gabriella Crespi

Designer, dicevo, e donna. Ci voleva la nona edizione del Triennale Design Museum, intitolata W. Women in Design,  nel 2016, per mettere una pezza a una storia del disegno industriale forse troppo maschiocentrica. Il desiderio di tracciare una storia del design italiano al femminile era dovuto. Anche se forse poteva rischiare di costringere in un ghetto dorato l’opera di queste progettiste. Così come non ho mai creduto in una letteratura femminile – come se certi temi o certe forme espressive possano appartenere di diritto solo al ‘gentil sesso’ – ma mi sono sempre affidato a una letteratura scritta da donne – dove è il portato della propria esperienza che fa la qualità dell’autrice – altrettanto non credo in un design femminile.

Credo nel design. Spesso, molto più spesso di quanto si creda, fatto da donne. Stiamo parlando di autrici di grande levatura – Anna Castelli Ferrieri, Cini Boeri, Raffaella Crespi (che fu mia docente al Politecnico). Ecco, nella esposizione del 2016 finalmente anche Gabriella entra in Triennale, con due suoi pezzi, quasi come tardivo risarcimento della critica militante. D’altronde, con Gio Ponti in vita, di lei su Domus non si parlò mai. Com’è stato possibile?

Gabriella Crespi, il periodo in India

Forse lo è stato anche perché proprio quando il design italiano stava ripensando in maniera critica alla sua stagione più luminosa, quella esplosa col boom economico, proprio quando stava per storicizzare il suo passato prossimo, una delle sue protagoniste scomparve dalle cronache, come a volersi far dimenticare. Ha sessantacinque anni Gabriella, quando, proprio al culmine del suo successo professionale, zaino in spalla, decide di intraprendere un viaggio interiore alle pendici dell’Himalaya. Per vent’anni vive in India seguendo gli insegnamenti del suo maestro spirituale Sri Munaraji. Atto di coraggio estremo, atto di fede, atto di crescita spirituale. Dimostrazione del suo animo inquieto, della sua indipendenza.

Il design a Milano durante il Boom economico

La sua è una vita combattuta da sempre fra cielo e terra. Fra concretezza e spiritualità. Duale fin dalle professioni dei suoi genitori, un ingegnere meccanico e una disegnatrice di gioielli. Figlia della meglio borghesia, studentessa del Politecnico in anni dove ci si conosce tutti e le donne si contano sulle dita di una mano (in quegli stessi anni, in quelle aule, gira un’altra mosca bianca: Cini Boeri), moglie di Giuseppe Maria Crespi, in pratica l’imprenditoria lombarda alla sua massima espressione: lungimirante, dinamica, colta (e comproprietaria del Corrierone). Madre di due figli, vista da fuori, con gli occhi del popolo, una donna realizzata. Non per i suoi occhi. Fugge dalle costrizioni familiari, più e più volte, ma, come al solito il marito ‘la ritrova sempre’. 

Inizia a disegnare i suoi oggetti in una città dove i migliori industrial designer stanno dando forma al gusto di una nazione. Eppure la swinging Milano del boom economico le sta stretta. Abbandona il marito, porta con sé i figli a Roma. È il 1964, Gabriella ha quarantadue anni ed è bellissima. Lo vedo dalle fotografie che sto consultando. Luminosa come la città che l’accoglie. Cerca artigiani dai saperi antichi e con loro inizia un percorso di ideazione e produzione di oggetti unici. Lussuosi non per i materiali usati, ma per la preziosità del disegno e della esecuzione. È il giusto mezzo fra arte, che per sua natura produce pezzi unici, e design, che per sua filosofia cerca la replicabilità. 

Il design italiano degli anni Settanta

Christian Dior la vuole a Parigi. Collabora con la Maison fino a tutti gli anni Settanta. Progetta e viaggia. Ginevra, New York, Hong Kong. È una delle rarisse donne occidentali che riesce ad entrare in Cina negli anni Settanta e forse l’unica che riesce a portare con sé, al suo ritorno, stuoie vegetali con le quali rivestire casa sua. È il 1968 quando presenta a Dallas il prototipo del suo primo Plurimo. Il nome lo ruba scherzosamente da Emilio Vedova. D’altronde ogni opera di Gabriella è sempre in dialogo con l’arte, che sia del presente o del passato. I Plurimi sono mobili mutaforme, volumi metamorfici che mutano nello spazio mutando lo spazio stesso.

Tavoli che si allungano, si diramano, si evolvono. Per tutti gli anni settanta Gabriella progetta e produce paralumi componibili, sedie che diventano letti, librerie che si fanno pareti. Realizza sculture in bronzo usando la tecnica della cera persa, intrappola il sorgere del sole nel bamboo, e lo trasforma in vassoio, tavolo, culla. Si rivolge poi alla luna, come simbolo cosmico. La plasma in forma di lampada d’acciaio, poi in scultura di pietra incisa, anticipando di vent’anni le pietre sonore di Pinuccio Sciola.

Le opere di Gabriella Crespi

Se c’è qualcuno che ha saputo al meglio esprimere attraverso le sue opere il sentimento di un’epoca – gli anni Settanta – e di un luogo – Roma – forse è proprio Gabriella Crespi. Ha casa e show room a Palazzo Cenci (dove, a suo dire, coabitava con il fantasma di Beatrice Cenci) e dove la vengono a trovare i rampolli dell’aristocrazia capitolina, i Ruspoli, gli Aldobrandini, i Borromeo. Senza abbandonare Milano, dove apre uno spazio in via Montenapoleone. Trent’anni d’attività indefessa, oltre duemila fra prototipi, modelli, realizzazioni, pezzi unici, pubblicati sulle riviste internazionali. 

Luxury in the Trunk 

27 maggio – 25 settembre 2022. Il progetto è stato ideato da Giosuè Boetto Cohen, giornalista e curatore di mostre internazionali, con il supporto di Elisabetta Crespi, figlia e collaboratrice del designer.

Gianni Biondillo

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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