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From Streetwear to Snobwear – Contano più le domande delle risposte

Gli stilisti hanno disegnato una propria versione di Celine by Slimane – tutti, tranne Hedi Slimane. Conta la sicurezza in se stessi, la spocchia che nasce dalla propria bravura

Streetwear – una definizione

Facciamo un passo indietro e ritroviamo la definizione di Streetwear, un abbigliamento sportivo per skate, surf e basket tra spiaggia e asfalto a Los Angeles negli anni Settanta, traslato per il tempo libero ed elaborato dalla community afroamericana nella comunicazione per musica rap e hip hop. Su questa base si mescolano il design giapponese e la sua sperimentazione, una costante rivisitazione della logomania e svariati dettagli di couture parigina. Tutto deve essere appariscente, tutto deve sembrare in contrasto e con un tocco di ironia – la gonna a balze con le sneakers e i tacchi scultura sotto i pantaloni da jogging. Chi si veste così, dà nell’occhio e i fotografi appunto di streetwear si eccitano sui marciapiedi fuori dalle sfilate.

Fino a poco tempo addietro, scarpe, cappellini, pantaloni da ginnastica e canotte – l’abbigliamento sportivo in genere che compone la base di questo streetwear è stato proposto da aziende di mass market: Nike e Adidas all’apice di una miriade di brand da grande magazzino. Nelle ultime stagioni, le case del lusso ne hanno firmato una propria versione, sfilando a Milano e Parigi – da Valentino a Louis Vuitton. Bisogna anche notare le edizioni limitate firmate dai rapper, proposte dai brand di mass market a prezzi di alto consumo. In questi ultimi anni, l’interesse della stampa era più legittimo: le tute in cotone plastificato per giocare a pallacanestro, addosso ai rapper e mescolate ai codici del lusso, al fatto a mano, alla ricerca su materiali e alla speculazione grafica, era materia di indagine e ragionamento.

La moda ha una regola soltanto: mai stare fermi

Sta nella sua definizione – per moda si intende quello che piace al momento attuale. L’evoluzione è costante – appena un’estetica si consolida e si codifica, significa che sta per sopraggiungerne un’altra. La prima scossa arrivava a giugno durante le sfilate di moda uomo (quasi tutti i cambiamenti appaiono prima sulle passerelle dell’uomo, poi su quelle della donna: il campo di azione sulla figura maschile è ridotto, la creatività si sforza). Più precisamente e come spesso succede, la scossa arrivava dalla passerella di Prada – dal hype di Prada. Mentre tutte le case giocavano su cotoni elastici e plastici per il salto e il ballo, sport e spazio astronauta, Prada richiamava l’uomo anni Settanta.

Pantaloni stretti e cavallo alto, accenno alla zampa, giacche corte quasi spioventi, spalle strutturate, colori bagnati, stemmi da college inglese. Argomenti ricorrenti da Gucci, dove però non sono trattati con rigore della forma ma come riferimenti di costume, se vuoi di cultura. Prada è stata precisa in questa estetica: e nel panorama della moda attuale, tale estetica affusolata e un po’ rock riporta a un nome – Hedi Slimane.

Il giornalismo di moda, oggi

Prendendomi una libertà di retorica, è come se a giugno Prada volesse dare un plauso, un’introduzione al prossimo lavoro di Slimane, indovinandone alcune possibilità. È quello che tante altre case hanno fatto poi, durante le sfilate femminili di settembre come se tutti volessero dare un’individuale visione di un Celine rivisto da Slimane, ognuno a modo proprio. Così facendo, si è segnata la moda di domani: una conversazione di immagini che coglie l’argomento del tempo e lascia a ognuno l’espressione del proprio punto di vista sul tema. Giornalismo di moda è saper cogliere questo filo conduttore che prosegue e conduce l’evoluzione estetica, segnando ciò che resta attuale e proiettato al futuro, rispetto a quanto viene segnato come superato.

Celine disegnato da Phoebe Philo era un riferimento per una donna vestita di volumi, sicura del proprio intelletto e poco interessata a piacere agli altri perché prima voleva piacere a se stessa. Si supponeva che Slimane entrasse in questa visione borghese con il suo segno nero, la sua silhouette grafica, la sagoma tagliata, il lucido della notte e la motocicletta – una ragazza per bene e borghese che si fa viziata e superba nella sua educazione, culturale e intellettuale. Il primo è stato Riccardo Tisci a Londra, a dire la sua sull’argomento: la sfilata presentava forse troppe idee, perdendo il punto – ma le prime uscite volevano una ragazza ben vestita, posata, ordinata – tutto l’opposto dallo Streetwear di cui parlavamo sopra e che il mondo si aspettava da Tisci per Burberry.

A Milano, di nuovo da Prada: nella sua rivisitazione di piccoli abiti neri, decolleté di vernice. Fendi nei tubini grafici di pelle, gonne longuette, cappotti e impermeabili di un armadio eterno (anche se qui, alcuni elementi sporty erano presenti). A Parigi, l’apertura scura di Dior per una sfilata di primavera è stata forse la piena conferma – certo, il fondamento di Dior resta un vestito semplice, ben tagliato, ma le prime due uscite potevano sembrare un tributo alla Philo così come un vestito over e corto in quello che forse era taffetà, per poi stringersi in vita su gonne spioventi alla petit robe salutando Slimane, e quindi procedere su colori tra il bianco, la crema e i toni scuri.

Anche nell’apertura di Valentino si poteva scorgere un segno alle strade di notte a Parigi – mentre tutto questo trovava naturale, anche se ambiguamente legittima, potenza in un Saint Laurent che dagli ultimi due anni continua a piacere a tutti, pubblico e mercato.

Hedi Slimane

L’unico che di Celine, della sua cultura e del suo riferimento, se ne è completamente infischiato, è stato proprio Hedi Slimane. Come a dire, ha lasciato fare agli altri. Slimane ha presentato solo Slimane – con superbia sicuramente, quasi con spocchia, ha mandato in passerella abiti simili a quelli della sua ultima sfilata di Saint Laurent, ormai tempo addietro, proprio come se niente lo avesse sfiorato.

Compleanno di Hedi Slimane, 2018, immagine da Hedi Slimane’s Diary.

Oggi che scrivo restano aperte domande – d’altra parte, penso sempre siano più interessanti le domande piuttosto che le risposte. Le critiche sia di pubblico sia di stampa sono esplose contro il nuovo Celine (al di là dell’accento, inizieremo a chiamare Celine al maschile?). Si prevede che LVMH disponga molte risorse per il progetto di Slimane – e ricordo le stesse critiche per la prima sfilata di Slimane da Saint Laurent quando poi, alla stagione successiva, se ne osannava il genio e il mercato comprava senza freno alcuno. Quello che fa Slimane irrita, ma poi piace.

La componente snobistica del sistema moda è dominante: piace quello che gli altri non hanno. Soprattutto oggi quando il lusso è stato banalizzato e diffuso dalla comunicazione digitale. Slimane conosce le mosse di questo gioco. Ripeto, quello che l’élite intellettuale vuole è quanto gli altri non hanno – e la storia insegna quanto l’élite intellettuale conduca la massa popolare (è da sottolineare che per élite intellettuale non si intendono i ricchi o i figli dei ricchi di qualsiasi continente del mondo, ma precisamente si intende l’élite intellettuale e culturale europea). Scegliendo un claim forse un po’ banale (tutti i claim devono essere banali per essere claim) si potrebbe dire, dallo streetwear allo snobwear.

Streetwear o Snobwear

Cosa nascerà dal contrasto tra – da una parte, il segno e l’atteggiamento di Slimane e che tante case di moda riconoscono – dall’altra parte, il successo bombastico dello Streetwear: non si deve pensare in termini di chi resta, di chi vince e di chi cade, ma bisogna chiedersi come le due estetiche possano reagire una con l’altra e come si evolveranno le richieste del mercato. L’ultima domanda. Slimane non ha considerato Celine, presentando solo Slimane. Che sia su questo punto che il vaso di Pandora voglia restare scoperto? Che sia finito il tempo dei direttori creativi e sia tornato quello degli stilisti?

Oggi i brand sono canali di distribuzione, vendita e media, con enormi risorse economiche a disposizione. I brand appaiono simili a broadcaster. Voglio dire: forse non ci saranno più direttori creativi a interpretare i brand, ma semplicemente brand che daranno spazio e voce agli stilisti. Forse alla fine si tratta solo, sempre e comunque, di sobrietà: ognuno fa semplicemente quello che sa fare. Di tutto il resto poco importa – conta la sicurezza in se stessi, una dose di egocentrismo, la spocchia che nasce dalla propria bravura. Si tratta di snobwear.

Matteo Mammoli

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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