Cerca
Close this search box.
  • EDITORIAL TEAM
    STOCKLIST
    NEWSLETTER

    FAQ
    Q&A
    LAVORA CON NOI

    CONTATTI
    INFORMAZIONI LEGALI – PRIVACY POLICY 

    lampoon magazine dot com

TESTO
CRONACHE
TAG
SFOGLIA
Facebook
WhatsApp
Pinterest
LinkedIn
Email
twitter X

Volendo essere onesti: quando un tessuto può considerarsi compostabile?

Alternative all’impiego di prodotti chimici nei processi di lavorazione di un tessuto, per non alterarne la biodegradabilità: è davvero possibile una economia circolare del tessile?

Un materiale si definisce biodegradabile quando, immesso nel comparto ambientale, si converte in biomassa, composti inorganici, acqua e anidride carbonica o metano. La biodegradazione è possibile in diversi comparti ambientali: in terreno, in acqua, in condizioni di presenza o di assenza di ossigeno; deve avvenire ad opera di ciò che è presente nel comparto ambientale, senza interventi da parte dell’uomo. In linea teorica tutti i polimeri – sintetici o naturali – sono biodegradabili. Ciò che fa la differenza è il tempo in cui la biodegradazione avviene, che incide sulla sostenibilità ambientale del polimero stesso. Un materiale è considerato biodegradabile se completa la sua conversione entro sei mesi e generando anidride carbonica per almeno il 90% del suo contenuto di carbonio. Allo stato attuale, non sono disponibili norme o certificazioni specifiche nel settore tessile. Ci si appoggia alla norma, formulata per gli imballaggi, UNI EN 13432 Imballaggi. Requisiti per imballaggi recuperabili mediante compostaggio e biodegradazione. Schema di prova e criteri di valutazione per l’accettazione finale degli imballaggi.

Omar Maschi, un dottorato di Ricerca in Biochimica presso l’Università degli Studi di Milano e impiegato presso Centrocot SpA, area Ricerca e Innovazione Multisettoriale, sostiene: «Il metodo utilizzato per misurare biodegradabilità e compostabilità non è strettamente correlato al tipo di substrato, poiché valuta la conversione del materiale in quanto tale. Che il materiale sia un tessuto o un imballaggio dal punto di vista del metodo non comporta differenze significative. È quindi lecito fare prove appoggiandosi ad altre norme, tenendo conto in quale comparto ambientale si voglia testare la biodegradabilità. La norma cambia in funzione della condizione che si decide di simulare. Una delle norme che si segue prevede la presenza di ossigeno e il contatto con il compost. In questo caso il metodo più diffuso è quello di monitorare la conversione del materiale attraverso la misura della  CO2 prodotta. Si monitorano quindi il rilascio e la quantità di CO2 emessa durante il processo di biodegradazione».

Le fibre sintetiche bio-based, MilanoUnica

Si può richiedere di estendere al tessile certificazioni emesse da enti private e nate originariamente per valutare altri materiali, come OK Compost, rivolta agli imballaggi. La complessità della ricerca della biodegradabilità nel settore tessile dipende dalle difficoltà della catena produttiva. Ogni fibra cellulosica, che sia naturale o artificiale come la viscosa, inizialmente è biodegradabile in tempi più o meno lunghi. Prima di arrivare sul mercato subisce tuttavia una serie di trattamenti che prevedono l’impiego di prodotti chimici che permangono sul materiale e lo alterano. Nel tessile si sta diffondendo l’utilizzo di polimeri bio-based, originando spesso fraintendimenti: un polimero bio-based deriva parzialmente o completamente da una biomassa rinnovabile – ma non è detto che sia biodegradabile.

La supply chain tessile: «Nelle fasi inziali, quelle di preparazione, sono impiegati prodotti per sbiancare, per candeggiare, per pulire. Segue la fase di tintura che, per sua natura, deve indurre una modifica stabile della fibra. I passaggi finali sono detti di finissaggio: sono applicate sostanze che forniscono al materiale tessile delle caratteristiche che in origine non possiede, come ritardo alla fiamma e idrorepellenza». Sono trattamenti che, anche quando non alterano la biodegradabilità della fibra, possono permanere nel comparto ambientale, modificandolo. Nasce qui la distinzione tra biodegradabilità e compostabilità. Un materiale può biodegradare e convertirsi in CO2 ma, se durante il processo i prodotti chimici che erano legati al tessuto sono rilasciati nel comparto ambientale, essi possono interferire con l’ambiente e quindi il materiale non può considerarsi compostabile. Oltre alla biodegradabilità si considera la disintegrabilità, cioè la capacità di un materiale di andare incontro a una frammentazione secondo limiti dimensionali e temporali: frammenti inferiori ai 2 millimetri per almeno il 90% del suo peso entro tre mesi. «Alla fine del processo si valuta il compost totale (ottenuto dal materiale che è andato incontro al processo di compostaggio) allo scopo di verificare  che non abbia delle differenze significative rispetto a quello iniziale in termini di composizione chimica, pH ed assenza di effetti ecotossici su specifiche specie vegetali».

Produzione di fibre tessili

Si stanno esplorando alternative all’impiego di prodotti chimici nei processi di preparazione di un tessuto in modo da non alterare la biodegradabilità, tuttavia il mercato richiede spesso prodotti dai colori vivaci, brillanti e solidi – che durano nel tempo e resistono alle sollecitazioni come lo sfregamento. Una soluzione possibile è l’impiego di una chimica verde in alternativa alla chimica tradizionale, per esempio, impiegando prodotti chimici con una buona compatibilità ambientale (se non addirittura biodegradabili) in sostituzione a quelli tradizionali. Un’altra opzione che la ricerca sta esplorando è quella di servirsi di microorganismi nei processi di preparazione e tintura del tessuto: «Nelle fasi di purga e candeggio si può ridurre l’utilizzo di prodotti chimici come acqua ossigenata o ipoclorito di sodio e sostituirlo con l’azione degradativa di alcuni microorganismi, in particolare di funghi, che producono enzimi in grado di attaccare gli stessi bersagli che sono attaccati dal prodotto chimico. Il risultato è simile a quello ottenuto servendosi di sostanze chimiche ma l’impatto ambientale è ridotto». Le difficoltà legate all’utilizzo di microorganismi nei processi di preparazione riguardano le condizioni di temperatura e pH che gli enzimi richiedono per agire, per cui la loro utilizzo nel tessile richiede accorgimenti particolari. L’impiego di microorganismi si può applicare anche nel trattamento dei reflui del tessile, anche se non è l’unica alternativa. La ricerca di soluzioni in questo campo si concentra soprattutto su  quei processi definiti a umido e caratterizzati da un massiccio consumo di acqua.

Si potrebbe agire a livello di processo e riducendo l’utilizzo di acqua durante la fase di trattamento del tessile – o in alternativa, puntare sul recupero dell’acqua a fine processo, ripulendola dai prodotti chimici. «Esistono microorganismi che grazie ai loro enzimi sono in grado di distruggere le molecole inquinanti dei reflui acquosi. Oppure si possono implementare processi fisici come l’ultrafiltrazione o l’osmosi inversa: ottimizzandoli si possono trattenere e separare dall’acqua i prodotti chimici. Operando sui reflui – oltre a pulire l’acqua –potremmo essere in grado anche di recuperare il prodotto chimico, estraendo dai reflui acquosi i prodotti chimici e reintroducendoli nel processo. Una sorta di circular economy applicata al refluo nel settore tessile».

Centrocot SpA è un’azienda di servizi per il tessile. Si occupa principalmente di prove di laboratorio: che spaziano dal chimico all’ecologico al microbiologico. È anche ente certificatore e si è attivato per supportare le aziende e affiancarle nella valutazione dei processi di biodegradabilità e compostabilità del  tessile.

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

SFOGLIA
CONDIVIDI
Facebook
LinkedIn
Pinterest
Email
WhatsApp
twitter X