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I rifiuti elettronici crescono tre volte più velocemente della popolazione mondiale

L’Italia ha riciclato solo il 34% dei rifiuti elettronici prodotti – senza politiche di riciclo ed economia circolare, persi 57 miliardi di dollari a livello globale

Secondo Mavropoulos, la rapida crescita della quantità di e-waste prodotti genera pressioni a livello ambientale e sulla salute umana. Occorre combinare la quarta rivoluzione industriale con l’economia circolare. Il potenziale economico che potrebbe derivare dal riutilizzo delle materie che compongono i RAEE ammonta a 57 miliardi di dollari. Scomponendo un apparecchio elettronico standard, è possibile recuperare fino a 69 elementi della tavola periodica. Non solo materiali come ferro e alluminio, ma anche preziosi, come oro, argento, platino e rame. Il riciclo dell’e-waste potrebbe quindi essere una risposta a diversi problemi, primo su tutti la scarsità di materie prime. 

Quasi 54 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici sono stati prodotti in tutto il mondo nel 2019. Come se ciascun abitante del pianeta avesse generato 7,3 chili di rifiuti in un solo anno. Il terzo rapporto Global E-Waste Monitor -presentato a luglio dalla ISWA (International Solid Waste Association) in collaborazione con UNU, l’Università delle Nazioni Unite – segnala che senza l’adozione di nuove politiche di smaltimento e riciclo a livello globale la cifra potrebbe arrivare a superare le 74 milioni di tonnellate entro il 2030, doppiando la quantità registrata cinque anni fa. Secondo Antonis Mavropoulos, presidente della ISWA, la quantità di rifiuti elettronici sta crescendo tre volte più in fretta della popolazione mondiale e il 13% più velocemente rispetto al Pil mondiale. Con ricadute sull’ambiente e sulla salute umana, e un forte spreco sul fronte delle risorse: riciclando correttamente e promuovendo modelli di economia circolare, il giro di affari che ne scaturirebbe è di 57 miliardi di dollari.

Per rifiuti elettronici – chiamati anche RAEE – rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche – o e-waste – si intende tutto ciò che rimane di oggetti che per funzionare hanno avuto bisogno di correnti elettriche o di campi elettromagnetici, progettati per essere utilizzati con una tensione non superiore a 1000 volt per la corrente alternata e 1500 volt per la corrente continua. Il rapporto li suddivide in sei macrocategorie sulla base delle caratteristiche che influiscono sulla gestione dei rifiuti: gli apparecchi per lo scambio di temperatura (frigoriferi, congelatori e condizionatori); schermi e monitor (computer, televisori, tablet, notebook); lampade; grossi elettrodomestici (come lavatrici, lavastoviglie e stampanti); piccoli elettrodomestici (ad esempio microonde, ventilatori, rasoi, bilance, telecamere, radio e calcolatrici) e infine apparecchi informatici e per le telecomunicazioni (smartphone, GPS, chiavette USB).

PHOTOGRAPHY ANNA DOROTHEA KER

Il continente che più di tutti contribuisce al problema è l’Asia che, solo nel 2019, ha generato 25 milioni di tonnellate di e-waste, seguita dai 13.1 milioni prodotti nelle Americhe e dai 12 in Europa, mentre Africa e Oceania si attestano a 2.9 e 0.7 ciascuna. Se si guarda alla produzione pro-capite, è l’Europa a guidare la lista, con 16.2 chili di rifiuti, nonostante siano i paesi europei quelli ad aver sviluppato le tecniche più efficaci sia nella raccolta sia nel riciclo dei rifiuti elettronici. Grazie a una normativa comunitaria in vigore a partire dal 2003, più volte aggiornata per tener conto dello sviluppo scientifico, il 53% dei rifiuti tecnologici prodotti nell’Europa occidentale risulta come riciclato formalmente. A fronte di una generale buona tenuta del sistema in Nord Europa, ad abbassare la media sono gli Stati balcanici, dove mancano ancora normative specifiche, e quelli meridionali. 

In Italia, nonostante a oggi siano in vigore sette leggi che disciplinano vari aspetti del riciclo e dello smaltimento dei RAEE, la percentuale di raccolta dei rifiuti si ferma al 34% del totale generato lo scorso anno (la Francia arriva al 56%, mentre la Germania al 52%). Su un totale di 1063 kt di rifiuti prodotti – cifra che supera quella di apparecchi e dispositivi elettronici messi in commercio, 1025 kt – solo 369 kt sono stati raccolti, ossia smaltiti o riciclati in accordo alla normativa. La quantità di rifiuti prodotti pro-capite supera quella della media europea, attestandosi sui 17 chili e mezzo, contro i 16.9 chili immessi sul mercato. L’Italia ha prodotto 366 kt di grandi apparecchi, 264 di piccoli, 242 di apparecchi per regolare la temperatura, 104 tra schermi e monitor, 79 di apparecchi informatici e 9 di lampade. 

Nel 2019 è stato riciclato soltanto il 17.4% del totale di e-waste prodotto in tutto il mondo. La percentuale è salita dello 0,4% rispetto al 2014. Nello stesso arco di tempo, però, la quantità di rifiuti generata a livello mondiale è cresciuta del 9.2%, oltre venti volte tanto. Sempre lo scorso anno sono stati invece 44.3 i milioni di tonnellate di rifiuti (corrispondenti all’82.6% del totale) di cui si sono perse le tracce. Questo significa che i sistemi di riciclo non sono riusciti a tenere il passo con la rapida crescita nella produzione di apparecchi elettronici, nonostante sempre più Stati si siano impegnati per fronteggiare il problema. Nel 2014 erano 61 i paesi con una legislazione specifica sul tema. Nel 2017, il numero è salito a 67, fino a raggiungere 78 a ottobre 2019. Su 193 Stati riconosciuti dalla comunità internazionale, oltre la metà non ha ancora sviluppato politiche in tal senso. Con ricadute sulla tenuta del sistema. Spesso questi rifiuti vengono trasportati da un paese all’altro per le procedure di smaltimento. 

Spesso i prodotti vengono progettati e assemblati senza rispettare i principi di riciclaggio, così da rendere impossibili, o molto costose, le operazioni di recupero dei materiali. Dal lato dei consumatori, poi, la ISWA stima che, nei paesi ad alto reddito, almeno l’8% dei rifiuti venga buttato in normali cassonetti della spazzatura, finendo in discariche o inceneritori non adeguati a smaltirli. Anche se riuscissero a essere recuperati tutto il rame, l’alluminio e il ferro presenti nei rifiuti per poi riutilizzarli nella costruzione di nuovi prodotti, per tenere il passo con la produzione di apparecchi elettronici, sarebbe comunque necessario estrarre almeno 14 milioni di tonnellate di questi tre materiali in un anno. Lo scarto tra la quantità di materiale che può essere recuperata e quella necessaria per sostenere il ritmo dell’industria, anche sviluppando tecniche di economia circolare avanzate, rimarrebbe comunque grande. I RAEE contengono un numero elevato di sostanze nocive, metalli pesanti come il cadmio e il mercurio o sostanze chimiche come i clorofluorocarburi, gli idroclorofluorocarburi ed elementi antifiamma, utilizzati per ridurre l’infiammabilità dei prodotti. Per la presenza di questi elementi, lo smaltimento senza riciclo corretto rappresenta un danno sia per l’ambiente in termini di rilascio di CO2 nell’atmosfera, sia per la salute dei cittadini, perché alcuni materiali, come il mercurio, possono danneggiare il sistema nervoso, quello immunitario, i reni e i polmoni. Secondo Maria Neira – medico e dal 2005 direttore del dipartimento di sanità pubblica, ambiente e salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – lo smaltimento scorretto e non registrato di e-waste minaccia la salute: un bambino su quattro muore per complicazioni evitabili dovute alla dispersione nell’ambiente di sostanze tossiche. Sono i bambini i soggetti più colpiti dalle complicazioni per la salute che derivano dal contatto con le tossine emanate dallo scorretto smaltimento dei RAEE. Nascita prematura, problemi respiratori e al sistema immunitario e un neurosviluppo alterato. Anche chi lavora nello smaltimento dei rifiuti elettronici corre rischi, dovuti soprattutto all’assenza di una normativa a tutela della salute adeguata in un gran numero di Paesi, soprattutto asiatici e africani. Fatica a respirare, dolori al petto, debolezza e scompensi dei livelli di glucosio presenti nel fegato sono alcuni tra i sintomi più comuni.

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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