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Maglieria, genesi ed evoluzione: quali possibilità per un designer?

Dal nord Europa al nord Italia, la maglieria irradia un sistema produttivo frammentario, che trova il suo cardine nella circolarità: durante la guerra per filare si utilizzavano tessuti riciclati

Knitwear: tecniche di lavorazione

Occorrono due ferri e due uncinetti. A volte anche solo le dita o le braccia, come prevedono alcune tecniche norvegesi. «È il modo di lavorazione che meno impatta l’ambiente», spiega Giovanni Maria Conti, professore associato al Politecnico di Milano e responsabile del laboratorio di maglieria. «Si può agugliare qualunque tipo di materiale, purché sia filamentoso e sufficientemente lungo. Ogni oggetto di questo tipo si può intrecciare: dai tessuti di pregio a quelli riciclati, alla plastica, alla pelle». Il knitwear si è evoluto, passando dall’essere impiegato per realizzare capi da portare in inverno e in autunno, con l’utilizzo di filati pesanti come la lana e il cachemire, all’essere indossato tutto l’anno.

«Il lavoro a maglia, come la calzatura e il tessile è uno degli ambiti sui quali si fonda il nostro made in Italy. A partire dai tessuti degli indumenti avanzati, si può ricavare un filo e creare nuovi capi. Un esempio su tutti è rappresentato dal distretto Pratese. A Prato ci sono delle aziende in grado di trasformare questi filati in altri materiali più semplici, come possono essere i panni, ma che entrano nel meccanismo dell’economia circolare». 

Le tecniche di lavorazione della maglia si sono evolute nel tempo, così anche le sue applicazioni. Se in principio ferri e uncinetto erano l’unico modo per ottenere un prodotto a maglia, oggi la tecnologia ha rivoluzionato la prospettiva dei designer che lavorano in questo ambito. «Si inizia a lavorare con due ferri e un uncinetto. Lo stesso fanno i nostri studenti Politecnico. Il termine è ‘aguglieria’. Partire dalle basi serve per capire in che modo il filo si muove, come si intreccia e si viene a creare il tessuto. L’evoluzione tecnologica ha fatto sì che ci si potesse trasferire sulle macchine»

Knitwear: cosa significa

L’ipotesi più accreditata è che fosse stata importata in Europa dalle popolazioni arabe nell’alto Medioevo. Il verbo ‘to knit’ fa la sua prima comparsa in una grammatica inglese del 1530, come spiega il prof. Giovanni Maria Conti nel libro Design della maglieria 2. Nella nascita di questa industria, la Gran Bretagna ebbe un ruolo di primo piano, a partire dalla creazione dei primi telai per opera di William Lee, nel Seicento. Macchine che inizialmente furono bandite da Elisabetta I perché rappresentavano un pericolo per le corporazioni e per i contadini, che arrotondavano la paga mensile con la fabbricazione di calze. Benché fino alla Prima guerra mondiale il settore rimase in mano ai britannici, l’Italia iniziò a emergere come polo produttore a partire dalla fine dell’Ottocento, con la nascita di decine di manifatture in Piemonte e in Lombardia.

Come sottolinea Conti, se l’underwear aveva un buon mercato, quando il consumatore era alla ricerca di un maglione di qualità ricercava l’etichetta scozzese. «Bisognerà aspettare la fine della Prima guerra mondiale, i programmi Internazionali come l’UNRRA (United Nation Relief and Reha- bilitation Administration) e il piano ERP (European Recovery Plan), con le prime balle di lana e di cotone e l’avvento massiccio delle fibre chimiche con i filati di viscosa, di acetato, di nylon, la scoperta delle fibre acriliche, del poliestere, per dare avvio alla maglieria italiana, non solo come settore produttivo ma industriale».

Lampoon intervista Giovanni Maria Conti

Negli anni Quaranta la produzione avviene perlopiù in clandestinità, nelle case delle magliaie. Per la difficoltà nel reperire il materiale, per filare si utilizzavano tessuti riciclati. Gli anni della ricostruzione del dopoguerra – insegna Conti – sono quelli in cui in Italia era più semplice reperire le materie prime. Carpi era al centro della produzione, potendo contare su innovazioni tecnologiche e capacità di esportazione negli Stati Uniti. Il sistema si andava irradiando verso il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, l’Umbria e la Toscana. Negli anni Settanta, i Missoni portano alla ribalta maglie e coordinati jaquard ottenuti con filati in viscosa e doppiati con lane, mentre Krizia e Laura Aponte iniziano ad utilizzare il rayon. Loro Piana e Brunello Cucinelli usano mischie di cachemire-lino e cachemire-seta. 

«La realtà della maglieria è tra le più frammentate del sistema industriale distrettuale italiano», spiega Martina Motta, phd al Politecnico di Milano. «Micro e piccole imprese – spesso piccoli laboratori – si sono raccolte nel tempo nei distretti secondo il loro ambito di competenza: nel biellese si concentra la filatura della lana, nel bresciano quella del cotone, nel pratese la produzione di filati fantasia, in Veneto si producono capi di fascia medio-alta, in Umbria prodotti di nicchia con materiali d’eccellenza, nel carpigiano e nelle zone limitrofe della Lombardia» 

Macchine per cucire: funzionamento

Le macchine ‘a uso domestico’ possono essere a mono o a doppia frontura. Permettono di lavorare o solo su un lato o su entrambe le facce dei teli. «Questo tipo di macchine in Italia era utilizzato dalle donne che lavoravano a maglia in casa. La zona di riferimento era il Piemonte», continua Conti. «L’innovazione arriva con le macchine elettroniche come la Shima Seiki o la Stoll: una dal Giappone e l’altra dalla Germania. Per usare le macchine da maglieria non basta schiacciare un bottone. Quando gli studenti si approcciano alle macchine hanno paura. Non è facile confrontarsi con una tecnologia. Attraverso lo ‘smacchinamento’ di una tela, si fanno prove, e i risultati arrivano. È un lavoro pratico, in cui la parte di design progettuale lavora in modo parallelo con quella manuale».

Il loro lavoro non è molto diverso da quello svolto dalle magliaie decenni fa, ma il target è cambiato. Oggi questi prodotti vengono realizzati per un cliente che richiede un capo d’alta moda, realizzato a mano, lontano dall’industrializzazione. Alcuni designer hanno iniziato a collaborare con le aziende che producono macchine per la maglieria – richiedono figure in grado di programmare le collezioni. In ambito industriale si può lavorare nella produzione di filati e nella tintura dei tessuti. 

«La maglia è utilizzata nell’automotive, o per la realizzazione di divise». Gli studenti del Politecnico di Milano seguiti dal professor Conti la affrontano da più prospettive. «Sto seguendo una tesi che ruota attorno all’utilizzo dei corpetti in maglia su donne che hanno partorito da poco. Per le sue caratteristiche, il filato che viene utilizzato è in grado di aiutarle a fare in modo che gli addominali tornino nella loro posizione abituale. In questo caso si tratta di tessuto dry yarn, capace di decomporsi quando raggiunge una certa temperatura. Una volta risolto il problema, può essere utilizzato come indumento intimo».

Professor Giuseppe Conti, Polimi

«Il lato hobbistico – continua Conti –, esiste ancora. Molti studi hanno dimostrato come il lavoro ripetitivo e metodico sia in grado di ridurre lo stress. Anche noi al Politecnico abbiamo portato avanti un progetto di ricerca su queste basi. È stato inserito all’interno di reparti oncologici, grazie all’impegno dell’associazione Il gomitolo rosa». Per estendere l’accesso anche ai neofiti, e per realizzare una sorta di dispensa universitaria sempre a disposizione dei suoi studenti, il prof. Giovanni Conti ha realizzato, in collaborazione con amici ed esperti di movie design, dei video-tutorial per insegnare le basi della maglieria. Il progetto si chiama Knitlab ed è stato lanciato otto anni fa.

Valeria Sforzini

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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