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Streetwear milionario e scena black –? La decade di Kanye West

Il mio punto di vista sull’influenza della scena black in questo blob chiamato Streetwear è inficiato da una problematica irrisolvibile: sono un europeo bianco

Il mio punto di vista sull’influenza della scena black in questo blob chiamato Streetwear è inficiato da una problematica irrisolvibile: sono un europeo bianco – ho più domande che risposte.

Di sicuro c’entra Kanye West, che in tempi non sospetti, cioè prima del successo e del delirio di onnipotenza fece uno stage da Fendi insieme a Virgil Abloh, investendo tempo ed energie in un asset che sul lungo periodo avrebbe generato introiti à go go. Già nella maison romana forse si sviluppava il piano d’attacco per quelle galline dalle uova d’oro che qualche anno dopo sarebbero stati Yeezy e Off- White (fu Pyrex Vision).

Gli esiti sono divergenti, con Abloh che cerca di inserire nei suoi show istanze politiche – c’è da chiedersi se ‘politico’ significhi ancora qualcosa nel 2018, ma è un’altra storia –, di progressismo e buonsenso, e utilizza nozioni di arte contemporanea ridotte ai minimi termini per aggiungere valore intellettuale a collezioni che non possono lavorare su tagli e volumi e azzardi strutturali. Quindi un po’ di Warhol con le stampe Caravaggio che si fanno logo su t-shirt e felpe, un po’ di Kosuth con le tautologie tra virgolette e un po’ di Duchamp che sta con tutto e Martin Margiela come un santino della destrutturazione e del concettualismo.

West gioca all-in. La sua linea prodotta con Adidas vive di una fulminea frenesia nelle prime stagioni, che scema con altrettanta rapidità, asfaltata anche da giornaliste bistrattate a un non fortunato show a New York a base di ritardi da diva di Kanye, ostentati abbandoni del front-row e povere modelle che svenivano per la calura. Oggi si trova relegata ad aspirazioni provinciali o cafonal west Hollywood. Il nostro pare aver perso il lume della ragione tra endorsement a Trump (che lo ha accolto con un abbraccio nella sala ovale), mitomania, sedicenti disturbi bipolari e abbandono dei social a causa di una unhealthy obsession che potremmo ascrivere alla lista dei white girl problems.

Quella che vuol essere una battuta forse dice abbastanza di queste due storie di successo, cioè che alla base della strategia, più che un nuovo modo di entrare e muoversi nel fashion business, ci sta una replica di un banale (per quanto auspicabile) successo bianco e maschio e capitalista con l’asset black pride. Le reference e le collaborazioni di Kayne e di Abloh suggeriscono che la black american culture non è centrale nello storytelling. Esiste, ma non è il tema su cui si innesta il racconto profondo dei brand.

Se osserviamo da vicino l’hype alle sfilate – anche della vecchia Europa come Milano, ma ancor di più Parigi –, le prime file da urlo per quegli show in cui i fotografi fanno a botte e i ragazzini creano ingorghi da beatlemania sono principalmente americane e black, come al debutto in passerella di 1017 Alyx 9sm di Matthew Williams alla PFW, brand di nicchia e ‘per addetti ai lavori’, che ha riunito nella stessa sala Kanye West, Virgil Abloh, A$ap Rocky, Ian Connor, A$ap Bari e Skepta solo per citare quelli che avevo di fronte. Per tre giorni su Instagram non si è parlato d’altro.

Basta gettare lo sguardo appena più lontano, oltre il fermento più mainstream impastato anche di televisione e rotocalchi, fin de siècle grottesco, per trovare brand e designer in grado di analizzare un contemporaneo diverso – Telfar Clemens e il suo racconto di una coolness newyorkese fatta di shopping a prezzi stracciati da Century 21, giù nel financial district, per ragazzini affascinati dal glamour di magazine europei d’avanguardia. Un lavoro post Dapper Dan e post Paris is burning.

A Londra Martine Rose e Samuel Ross di A-Cold-Wall*, per una generazione cresciuta nelle strade della fu Cool Britannia ora pronta a interrogarsi sugli aspetti politici di un patto sociale che non sta rispettando le promesse fatte in tempi pre crisi globale. Discutono le contraddizioni tra i padri (che secondo l’adagio ont toujours tort) progressisti ora disillusi e i figli dal futuro incerto, vera società civile immobilizzata dalla gerarchia. Grace Wales Bonner, inglese e diplomata alla CSM, critica e propone alternative al rapporto sbilanciato tra Europa e Africa, ponendo il focus sulle fonti storiche e culturali, sugli scontri e sulle appropriazioni indebite, ridando dignità a un continente usurpato.

Lo scenario è ampio e ribolle di gemme sotto il velo accomodante dello streetwear milionario. Sta alla schiera di addetti ai lavori dell’industria culturale che si occupa di moda non muoversi sempre nelle vie dei soldi e seguire le strade dell’incerto.

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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