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Progetti open-source e co-design: il futuro passa per i FabLab

Le officine di fabbricazione digitale hanno avuto un ruolo decisivo durante la pandemia. Oggi tocca a loro applicare la cultura del progetto a sprechi alimentari e riciclo di materiali: in Italia lo fa Opendot

All’inizio della pandemia di covid un medico di Taiwan ha creato una scatola di plexiglass che proteggeva i medici dal coronavirus durante l’intubazione dei pazienti. Nel giro di qualche mese ha cominciato a ricevere richieste da parte di colleghi americani, che si trovano ad affrontare carenze di attrezzature.

Qualcosa di simile è accaduto a Brescia, dove Cristian Fracassi, ingegnere edile e architetto, fondatore e CEO di Isinnova, ha creato con il suo team una maschera per la respirazione di emergenza utilizzando una normale maschera da snorkeling in commercio collegata all’erogatore di ossigeno con un raccordo disegnato e realizzato appositamente. Entrambi i progetti sono stati registrati sotto una licenza Creative Commons in modo che chiunque nel mondo ne avesse bisogno potesse crearli rapidamente e gratuitamente.

Enrico Bassi, direttore del FabLab Opendot di Milano 

«Una delle poche cose belle successe durante la pandemia è che tutto il mondo dei maker ha reagito in modo molto attivo, unito e collaborativo», spiega Enrico Bassi, direttore del FabLab Opendot di Milano, che durante la pandemia, tra le altre cose, ha realizzato alcune maschere progettate da Isinnova per l’Ospedale di Melegnano, le Intubation Box progettate a Taiwan per gli Ospedali di Desio e Melegnano, e infine ha coordinato la rete dei maker e FabLab italiani che progettavano e realizzavano dispositivi legati alla pandemia. Open Source Medical Supplies ha calcolato che nel 2020 i maker di tutto il mondo hanno creato 48milioni di pezzi di dispositivi medici coinvolgendo 42mila persone in 86 nazioni: tutto con la filosofia della condivisione e dell’open source. 

I FabLab sono officine che offrono servizi personalizzati di fabbricazione digitale

Per essere un FabLab non basta avere macchine di prototipazione all’avanguardia: bisogna metterle a disposizione di chiunque voglia creare prototipi, condividere i valori legati all’open source, fare formazione, impegnarsi a fare rete e trasferire competenze. Opendot è nato nel 2014 dallo studio di designer Dotdotdot e si concentra su quattro aree: salute, economia circolare per combattere gli sprechi (di cibo, oggetti e materiali), manifattura urbana digitale e edutainment. Fa parte della fondazione internazionale con sede a Boston che raggruppa 1800 Fab Lab di tutto il mondo.

Opendot e Fondazione Tog

Una delle collaborazioni più continuative di Opendot è stata con Fondazione Tog, che si occupa della riabilitazione dei bambini affetti da patologie neurologiche complesse. «Abbiamo creato con loro ausili specifici per le persone in cura: per esempio sistemi che permettessero ai pazienti di disegnare, giochi per la riabilitazione cognitiva, strumenti per facilitare la riabilitazione personale, come per esempio biciclette su misura o rulli terapeutici. Inoltre abbiamo fornito ai terapisti strumenti di modellazione, stampanti 3d e software per creare loro stessi questi oggetti personalizzati».

Tutti i progetti di Opendot si basano sul co-design, cioè la collaborazione tra designer e professionisti del FabLab e i clienti, che possono essere aziende o, in questo caso, terapisti e famiglie. La collaborazione con Tog ha dato esiti tanto positivi che la nuova sede della Fondazione, in via Livigno 1, avrà un FabLab interno incentrato sul tema della salute. «È interessante che dalla collaborazione su un singolo progetto sia nato prima uno scambio continuo e poi un nuovo FabLab interno alla Fondazione con cui i terapisti potranno essere più autonomi».

FabLab nel mondo

È difficile valutare crescita e peso dei FabLab nel mondo, poiché ogni singola realtà lavora a livelli molto diversi. «C’è una grande attività di spazi piccoli molto dinamici e interessanti legati a community locali che fanno un ottimo lavoro di divulgazione e sui territori. Poi ci sono realtà più complesse che si specializzano su progetti articolati e sono coinvolti nelle progettazioni europee e con le municipalità: queste realtà stanno scrivendo il futuro della manifattura, dell’economia circolare e della salute. Su circa 500 FabLab europei solo una ventina fa parte di questo secondo gruppo, in cui si inserisce anche Opendot». 

Con il Comune di Milano Opendot ha attivi diversi progetti: l’evento annuale Manifatture Aperte, per mettere in rete le manifatture urbane cittadine, aprendo questi spazi a visite guidate e laboratori; la partecipazione al bando europeo di circular economy Reflow; la partecipazione a Centrinno, relativo al settore manifatturiero; e a Openagri, sull’agricoltura innovativa periurbana. «Il policy making è uno degli ultimi ambiti in cui siamo entrati, ma anche questo campo può essere affrontato con le stesse modalità di lavoro che contraddistinguono il nostro approccio». Nell’ambito di Centrinno, Opendot ha creato una rete tra piccoli operatori del mondo della moda e designer milanesi che vogliono approcciarsi all’economia circolare e che in questo network ricevono indicazioni di buone pratiche, proposte di corsi e workshop.

Le fabbriche storiche di Milano

Le fabbriche facevano da cintura alla città di Milano: ogni quartiere fuori dal centro aveva i suoi nomi: la Pirelli, la Breda, l’Ansaldo, la Carminati Toselli, la Manifattura Tabacchi, la fabbrica del gas della Bovisa, l’Alfa Romeo. Col tempo le periferie sono state inglobate nella città e in esse non c’è stato più posto per le fabbriche: rumorose, sporche, ingombranti. Sono rimasti solo gli eventi legati a quel passato manifatturiero: il Salone del Mobile, la Settimana della Moda. OpenDot immagina una Milano in cui si torni a produrre, oltre che a commerciare.

«Non ci interessa che l’ex fabbrica Ansaldo si rimetta a fare locomotive o che questo spazio dove oggi lavoriamo torni a fabbricare batterie. Quel tipo di produzione è standardizzato, funziona su vasta scala, può stare lontano dalla città. Ci interessa riportare in città le manifatture ad alto valore, personalizzate, su volumi medio-bassi e molto locali. Tutta la manifattura che abilita la circolarità dell’economia, dalle riparazioni al su misura, avrebbe un forte impatto sulla socialità di molti quartieri cittadini. Per renderle competitive e adatte ai centri urbani, tutte queste manifatture devono avere oggi una componente digitale». A Milano ci sono già esempi di manifatture urbane: i laboratori delle scenografie del Teatro alla Scala; aziende elettriche che danno impiego a persone con difficoltà; manifattura di chitarre elettriche in alluminio; laboratori di gioielli artigianali. 

OpenDot per Milano

L’imperfezione artigianale è di norma la qualità di un lavoro, quando si vogliono precisioni a frammenti di millimetro bisogna ricorrere alla tecnologia. La cintura realizzata da Opendot per Versace. «Eravamo stati contattati per realizzare un altro progetto, un pezzo con una geometria impossibile da produrre a mano», spiega Bassi. «Quando ho presentato ai responsabili del marchio le potenzialità della stampa con tecnologie digitali, hanno capito che poteva essere applicata ad altri progetti. L’Head designer di Versace ci ha sottoposto un’altra idea che aveva da tempo ma che era stata giudicata economicamente insostenibile: una cintura con un serpente stilizzato avvolto attorno alla vita, annodato frontalmente intrecciando testa e coda».

Un oggetto piccolo, cavo all’interno, con scaglie geometriche su cui fossero incastonati pietre, che girasse attorno alla vita ma fosse anche tridimensionale. «Abbiamo stampato alcune prime prove, capito insieme gli ingombri e gli agganci. C’è stato un lungo lavoro per mediare tra lo spessore minimo che l’oggetto doveva avere per poter stare in piedi e lo spessore massimo per non allargare il giro vita della silhouette».

Una volta finalizzato il prototipo della cintura, questo è stato inviato ai fornitori della casa di moda. Perché i designer dell’azienda non avevano coinvolto prima i fornitori esperti di stampa 3d per tentare di realizzare con loro la cintura? «All’interno delle aziende non c’è l’abitudine di contaminare le aree», spiega Bassi. Ai fornitori si consegnano progetti da realizzare e questi non sono incentivati a fare proposte. È un problema culturale, di metodo di lavoro. Resiste una concezione per la quale da una parte c’è la tecnologia, fatta da ingegneri, e dall’altra la creatività, di competenza degli artisti».

Le produzioni di OpenDot

Una casa di moda o un’azienda sanitaria ha le disponibilità per sostenere i costi che l’innovazione del prodotto richiede. Che succede se a presentarsi con una nuova idea è un singolo medico, che vuole capire se una strumentazione che ha ideato è realizzabile e può funzionare? Che costi deve affrontare uno studente di moda o design che vuole prototipare un oggetto che nessuna manifattura sarebbe disposta a progettare per lui perché già occupata a ciclo continuo con altre commesse?

«Questo spazio e il nostro approccio flessibile ci permettono di lavorare con clienti di diversi livelli. Un giovane creativo ha meno disponibilità economiche ma ha più tempo a disposizione può seguire i nostri corsi di formazione gratuiti per imparare a utilizzare i programmi di progettazione e le macchine», spiega la co-fondatrice e general manager Laura Dellamotta. Opendot ha progettato accessori per la moda e strumenti medicali, gioielli, sedute posturali per bambini con disabilità e giochi per bambini con patologie neurologiche. Ciò che i settori di ricerca e sviluppo delle aziende non sapevano creare per mancanza di mezzi, è stato prototipato e realizzato nel Fab Lab. Nato nel 2014, Opendot mette insieme designer, ingegneri, informatici, grafici e sviluppatori.

Progettazione aperte in ambito medico

L’ambito medico, come l’attuale pandemia mondiale ha dimostrato, è uno dei campi che più potrebbe beneficiare della coprogettazione e della progettazione aperta. «Una mamma di un bambino con una particolare patologia ci raccontò che le scarpe ortopediche per suo figlio erano disponibili in un solo modello», ricorda Bassi. «Esprimiamo parte di noi stessi con il nostro abbigliamento – quelle scarpe raccontavano solo la condizione della malattia».

Il team di OpenDot partiva da un modello di una calzatura Vibram che avvolgeva e copriva il tutore. L’azienda ha fornito il materiale del modello: stoffa, gomma e velcro. Opendot ha realizzato il prototipo di una propria versione, che potesse essere adattata alle misure di ogni bambino variando i parametri del prototipo. In un workshop con le famiglie e i bambini e la supervisione dei terapisti, è stata personalizzata l’estetica della scarpa. Con il laser sono state tagliate stoffa, gomma e velcro e i pezzi sono stati cuciti assieme per realizzare una scarpa ortopedica personalizzata.

Reflow – Opendot  

Nell’abito di Reflow, progetto europeo dedicato alla circular economy applicata al cibo nei mercati comunali, Opendot ha creato Botto, un piccolo device per favorire e semplificare le donazioni di eccedenze alimentari. «Dall’Ortomercato di Milano, dove si riforniscono negozianti e ristoranti, passano ogni giorno 2mila tonnellate di frutta e verdura, di cui una piccola percentuale, per vari motivi, si getta: è stato stimato che siano tra le 3,5 e le 5,5 tonnellate al giorno, ma sembra essere molto di più. Ci sono associazioni dentro l’Ortomercato che passano a raccogliere le eccedenze alimentari, ma questo funziona solo quando un venditore deve buttare qualcosa ed esattamente in quel momento passa l’associazione».

«Botto è un dispositivo fisico collegato al wifii, a ricordare al venditore che c’è questa possibilità, che gestita solo attraverso un’app rischierebbe di essere dimenticata. Quando un venditore ha dei prodotti da donare preme un bottone, gira una rotella per indicare la quantità e conferma. L’associazione riceve in chat il messaggio di avvertimento, va a recuperare i prodotti, smista ciò che può tenere e ciò che deve buttare e consegna i prodotti recuperati alle associazioni che si occuperanno della loro distribuzione sul territorio, come Croce Rossa o Pane quotidiano»

L’intuizione è stata quella di capire che a limitare la collaborazione dei venditori non era tanto la volontà quanto il tempo: i grossisti vanno sempre di fretta e sulla buona volontà prevale spesso la necessità di disfarsi velocemente delle eccedenze per continuare a lavorare. Botto è stato sottoposto a test con 4 dei 200 grossisti operativi all’Ortomercato: il primo giorno ha contribuito a salvare 2 tonnellate di cibo. Ora il Comune di Milano e Sogemi (società che gestisce i mercati agroalimentari all’ingrosso di Milano) stanno valutando il progetto, che Opendot vorrebbe estendere a tutti i grossisti.

Progettare in Italia

Per Opendot, design significa cultura del progetto, che nel loro caso è sempre condiviso, partecipato, testato e valutato in tutte le fase della prototipazione e realizzazione. «Come tutte le realtà con un grande passato, in Italia è inevitabile fare confronti. Da un lato c’è chi vorrebbe che il design continuasse a essere solo prodotto, dall’altro lato ci sono ambiti che hanno un gran bisogno di progettazione, ma di un tipo di progettazione diversa e partecipata. Quando si riesce a fare questo con clienti che hanno già una forte tradizione e cultura del progetto, il risultato è molto migliore, per questo siamo convinti che la strada sia quella giusta, anche se ci vuole un po’ di tempo per far cambiare idea alle persone». 

Quanto tempo ci vorrà perché un oggetto come Botto entri nei musei di design? «Credo che Botto abbia già le caratteristiche per entrarci. Certo, le regole per candidarsi a certi premi sono ancora modellate su aziende vecchio stile, non sulle realtà più piccole e dinamiche».

Nicola Baroni

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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