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Un quadro della canapa industriale in Italia
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Canapa industriale, punti deboli e criticità della filiera italiana

Beppe Croce, presidente di Federcanapa, traccia un quadro del settore industriale nazionale. Tra normative ambigue, progetti di ricerca, varietà autoctone e impianti che ancora scarseggiano

Lampoon intervista Beppe Croce, presidente di Federcanapa

Il 20 febbraio 2016, dopo alcuni tavoli nazionali di lavoro organizzati per promuovere la canapicoltura e le filiere della canapa industriale, nasce Federcanapa (Federazione della canapa italiana). Al suo interno: imprese, esperti e associazioni operanti nel mondo della canapa in Italia. L’obiettivo primario – spiega Beppe Croce, presidente e fondatore di Federcanapa – è quello di «fare rete, promuovere la ricerca, lo sviluppo e le peculiarità del settore anche con marchi di qualità». La Federazione, nata con un accento particolare per la parte agricola, negli anni si è fatta promotrice della normativa in tema di canapa. Ha lavorato a una serie di disciplinari – norme che definiscono i requisiti produttivi e commerciali di un prodotto – in diversi campi. 

«Il primo, sulla scia dell’esplosione del fenomeno della cannabis light, riguarda il fiore della canapa. È stato firmato insieme a Confagricoltura e CIA (Confederazione Italiana Agricoltori). Un altro disciplinare è sulla canapa ad uso alimentare, sui derivati dal seme (come olio e farine). Un altro ancora riguarda la canapa da estrazione dei cannabinoidi a uso industriale. Con UNI (Ente Italiano di Normazione) e con l’Università di Bologna abbiamo poi collaborato per la realizzazione di una norma sull’olio di canapa spremuto a freddo. Terminata da poco, sarà la prima norma europea su questo tema. Potrà fare da battistrada per tutti gli altri oli spremuti a freddo, come ad esempio quelli di zucca, di sesamo e di lino», racconta Croce. 

Canapa industriale, storia e normativa

Nel dopoguerra si assiste al declino storico della canapa, prima di allora molto diffusa in vari settori industriali. Lo si deve alla concorrenza forte del cotone e delle fibre sintetiche nel mondo tessile. Anche di fibre come l’abaca, la iuta e la sisal, utilizzate per cordami e per altre applicazioni extra tessili. La canapa richiede un grande consumo di lavoro per ogni ettaro. Così, in Italia, la sua lavorazione andò declinando, dal Trentino alla Sicilia, con il tramonto della famiglia contadina. Erano gli anni Sessanta, il boom economico.

Un ruolo lo ha avuto anche la legislazione statunitense del 1937. Si andava a impedire la coltivazione di qualsiasi tipo di canapa, compresa quella a scopo medico. La normativa ha dato avvio a una revisione mondiale, provocando l’ostracismo verso la canapa. Il culmine: la Convenzione unica sugli stupefacenti delle Nazioni Unite, firmata il 30 marzo 1961 e tuttora in vigore. Per Croce, «il paradosso della convenzione è che l’intera pianta di canapa, cannabis sativa, era equiparata all’eroina, nella stessa tabella». Solo nel dicembre 2020 «l’ONU ha spostato la pianta di canapa dalla tabella dell’eroina a quella della morfina, riconoscendone l’utilità terapeutica. Per quanto riguarda l’Italia c’è ancora una certa rigidità da parte del Ministero della Salute. Foglie, fiori e resina sono disciplinati dalla legge sugli stupefacenti. La canapa a uso industriale è una canapa che non fa male, a basso tenore di THC. Il fenomeno della cannabis light potrebbe invece essere regolarizzato anche in Italia come fatto in Belgio e Lussemburgo con la canapa a uso fumo. Si è andati a garantire una canapa controllata, con tenore di THC inferiore a quello previsto dalla legge. Si è previsto il pagamento delle accise allo Stato».

Canapa industriale, impieghi e settori

Oggi la canapa è coltivata per il fiore e il seme da impiegare per uso alimentare. La fibra va invece a fornire alternative sostenibili all’uso di materiali di origine petrolchimica non rinnovabili. Tra i settori coinvolti il nutraceutico, dove sono impiegati il seme, ricco di acidi grassi e vitamine, e il CBD, di notevole interesse anche nella cosmesi. C’è poi il settore dell’edilizia (fibra di vetro, calce canapa) e quello dei materiali compositi e delle bioplastiche. E ancora, quello dei tessuti tecnici (tessuti non tessuti) e quello dell’automotive. Senza dimenticare l’industria tessile. Un altro campo di grande interesse è il cartario, per la carta da macero, che dopo qualche ciclo ha bisogno di essere rinvigorita con un apporto nuovo di fibre. In questo senso la canapa può essere una risorsa interessante.  

Potenzialmente tutte le parti della pianta sono utilizzabili e la canapa è una coltura versatile dai molteplici benefici per il suolo. Assorbe CO2, restituisce carbonio ed è una pianta rinettante: se coltivata densamente diventa un erbicida naturale capace di soffocare le specie infestanti. Mantiene così il terreno più pulito. «Federcanapa – dice Croce – insiste affinché gli agricoltori siano messi in grado di coltivare canapa che abbia più di un’unica destinazione. Non solo per vendere paglie e steli, ma anche per valorizzare gli steli insieme al fiore, gli steli e il seme ad uso alimentare, i residui di trebbiatura che sono ancora ricchi di principi attivi».

Canapa industriale, impianti di trasformazione in Italia

Si parla del potenziale della canapa in bioeconomia, un’economia incentrata sull’utilizzo sostenibile di risorse naturali rinnovabili e sulla loro trasformazione in altri beni. Croce avverte: «Per fare bioeconomia occorre avere la logistica e gli impianti che ti permettano di farla». Il panorama italiano, dove gli impianti di trasformazione scarseggiano, sta però cambiando. In Toscana, a Migliarino Pisano (Pisa), è pronto il primo progetto dopo vent’anni, realizzato da Canapafiliera Srl dei fratelli Vitiello. È stato avviato un consorzio con alcuni agricoltori, con l’obiettivo di produrre fibra di qualità, puntando soprattutto sulla fibra lunga. Nel nostro Paese si contano poi gli impianti di Assocanapa a Carmagnola (Torina), e di South Hemp Tecno Srl a Crispiano (Taranto).

Per lo sviluppo del settore, oltre a una normativa adeguata, nel breve periodo servono «macchinari e tecnologie di raccolta che siano alla portata degli investitori. Bisogna riuscire a garantire un numero di impianti sufficienti a produrre con continuità per competere con le altre nazioni». A mancare non sono i progetti. Spiega Croce: «Nelle Marche si sta cercando di realizzare un impianto di piccole dimensioni per fibra di qualità. Altre iniziative imprenditoriali sono nate in Sicilia, Puglia, Toscana, Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto».

Canapa industriale, ricerca e sviluppo

«Per lo sviluppo della canapa in Italia servono tecnologie di raccolta e delle genetiche, delle varietà di canapa. Se si vuole competere a livello internazionale si devono avere delle varietà che producano grande quantità di fibra di qualità – ma anche grande quantità di semi di qualità o ad alto tenore di CBD, CBG o terpeni. In questo senso la ricerca pubblica nell’agricoltura non ci sta dando supporto», dice Croce.

Federcanapa collabora con diverse università italiane – l’Università di Udine, l’Università di Catania e La Sapienza di Roma – per progetti di ricerca e sviluppo. «Con l’Università degli Studi di Napoli Federico II, ad esempio, stiamo preparando la seconda edizione del CanapaForum. Si terrà dal 6 al 10 settembre e ospiterà conferenze con relatori stranieri, provenienti da America, Canada, Australia e Cina. Avrà il supporto dell’EIHA – European Industrial Hemp Association. Sarà l’occasione per fare una panoramica delle principali normative a livello internazionale. Presenteremo le novità e le alternative del settore, con progetti prototipi per impianti di piccole dimensioni adatti all’agricoltura». Quest’anno, a febbraio, Federcanapa ha aderito all’Hemp Club, il progetto per l’interscambio di esperienze tra Paesi europei, insieme a Portogallo, Austria, Romania e Repubblica Ceca. L’Italia è capofila con due cluster, Green Chemistry Lombardia e Chimica Verde SPRING. 

Beppe Croce

Fondatore e presidente di Federcanapa, direttore dell’associazione Chimica Verde Bionet e membro della presidenza del comitato scientifico di Legambiente. 

Mattia Noseda

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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