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Protezione e valorizzazione della lana di Alpago, una storia italiana

Da lana grezza a materia di design: la ricostruzione di una filiera italiana che esiste dall’anno zero. L’iter produttivo naturale del lanificio Paoletti a Follina, nel bellunese

Pecora Alpagota: caratteristiche

La pecora alpagota è una razza autoctona italiana, allevata da duemila anni sulle Dolomiti bellunesi. Il suo vello, che varia dal giallo prevalente al marroncino esteso solo a zampe e muso, è diventato materia prima per la lavorazione dei tessuti del lanificio Paoletti, fondato nel 1795 e tra i più antichi lanifici veneti ancora in attività. L’azienda di Follina collabora da dieci anni con gli allevatori del bellunese, per valorizzare la produzione locale di lana e contribuire allo sviluppo della filiera corta.

«Lo smaltimento della lana era un problema e un costo per gli allevatori. Si sono rivolti a diversi lanifici, soprattutto nel biellese, ma gli veniva detto che la materia era troppo grezza. Poi hanno trovato noi. All’inizio della produzione, nel 1800, facevamo il ‘panno griso’ che si utilizzava per la confezione di un abito per le persone nel quotidiano. La lana di Alpago somiglia alle lane che si utilizzavano all’epoca», spiega Paolo Paoletti, responsabile marketing e commerciale dell’azienda di famiglia. 

Lanificio Paoletti

La famiglia si occupa di produzione e commercio di lana dal 1700, periodo in cui la zona collinare di Follina viveva il suo sviluppo industriale. «Si lavorava la lana già dall’anno mille, una tradizione portata dai monaci cistercensi, che avevano bonificato le terre, costruito canali», precisa Paoletti. «Con la Prima Guerra mondiale, la zona qui è stata occupata dall’esercito austro ungarico e gli austriaci sono rimasti qui per tre anni». Gli austriaci occuparono anche il lanificio, continuando la produzione per l’esercito dell’Impero. «In quel periodo la mia famiglia si trasferì in esilio nel biellese, dove ha affittato una filatura e ha continuato la produzione di uniformi militari. Il tessuto si chiamava ‘panno grigio-verde’».

Alla fine della Seconda Guerra mondiale, la pecora alpagota ha rischiato l’estinzione perché molti allevatori hanno abbandonato la campagna per la città. «Con questa collaborazione sosteniamo la sopravvivenza di questa pecora e della stessa biodiversità. Negli ultimi dieci anni si è passati da 2500 a 4000 esemplari, questo vuol dire che la regione si sta ripopolando», spiega Paoletti. La sinergia creata tra il lanificio e gli allevatori della zona ha attivato una produzione locale, che comprende tutto il ciclo produttivo della filiera: «Il prodotto si acquista in Alpago, a 35 km da noi. La lana arriva al lanificio lavata e noi prima la pattiamo, cioè la scuotiamo per togliere altra polvere e impurità, e poi iniziamo la cardatura. Si sbroglia così il fiocco e si dispongono le fibre ben dritte tanto da creare un velo di lana, diviso poi in striscioline».

Lo stoppino è l’embrione del filo destinato ad avvolgersi per migliaia di volte grazie ai macchinari e dar vita al filo di lana. «Facciamo un panno battuto, ‘cattivo’, con una mano dura. Lo sceglie il designer, al quale piace dare geometria al capo. Può essere tagliato a taglio vivo e modellato in modo architettonico». Il passaggio fondamentale di questo procedimento è la follatura: «Il tessuto si fa infeltrire per renderlo impannato e fargli raggiungere una consistenza robusta. Grazie a questo processo il tessuto può essere tagliato a taglio vivo perché ha una certa rigidità».

Lana alpagota

La lana alpagota lavorata dal lanificio è naturale, perché non tinta. Il tessuto è realizzato senza aggiunta di sostanze chimiche: «Dopo la tosatura gli allevatori dividono i velli più bianchi e gialli, la lana greggia, da quelli più grigi e scuri, la lana moretta. Unendo e mescolando un po’ di greggia e moretta si ottiene un mélange dal grigio al marroncino, e riusciamo ad ottenere 4 colori naturali. Grazie a questo si possono realizzare fantasie senza tingere». Gran parte della lana utilizzata nel processo produttivo è acquistata dall’Australia, Paese esportatore insieme alla Nuova Zelanda: «Il 50 per cento del nostro prodotto è fatto con la lana australiana. Il 20 per cento arriva dalla Nuova Zelanda, il 10 per cento dal Sudafrica e dall’Argentina. Acquistiamo una piccola parte anche dalla Svezia e dall’Italia. Ogni Paese ha la sua razza specifica che viene allevata da generazioni. Ogni lana ha caratteristiche diverse. Ci sono lane più morbide ma meno gonfie. Ogni lanificio ha le proprie ricette e mescola lane di diversa provenienza per la qualità che ogni lana può esprimere nel tessuto».

Oltre al recupero della lana dell’alpagota bellunese, il lanificio ha attivato altre collaborazioni locali: « Stiamo lavorando anche con la lana di pecora Brogna, del parco della Lessinia, vicino Verona. Acquisteremo lane che provengono dall’Abruzzo e la Gentile di Puglia», spiega Paoletti. Solo il 5% del totale della materia prima lavorata dal lanificio è italiana. Il recupero e l’utilizzo della lana italiana è un progetto in divenire, perché il settore non produce abbastanza materia prima, spiega Paoletti: «Gli allevatori che vogliono lavorare con un lanificio delle nostre dimensioni devono fornire un quantitativo minimo di lana. Si devono mettere d’accordo su come fare la tosatura, la cernita dei velli, dividere per qualità e mettere insieme quantitativi minimi per lavorarla».

Il 50% della produzione del lanificio prende la strada dell’estero, Francia in testa seguita da Corea, Cina e Giappone. Paolo Paoletti è responsabile del settore commerciale per l’Asia, dove viaggia periodicamente per studiarne il mercato e le tendenze del settore: «Richiedono tessuti italiani di qualità con disegni e colori. Negli ultimi anni ho riscontrato dinamismo nel mercato coreano, in crescita. Il nord della Cina è più tradizionale, lavoriamo con clienti a Pechino che comprano tessuti sobri di pregio senza troppe fantasie. AI clienti del sud piacciono i colori e i disegni. Abbiamo portato questi prodotti grezzi a un livello di design. Ci siamo riusciti con una serie di tecniche di lavorazione, con lo studio del disegno, dei colori, il finissaggio, cioè la nobilitazione del tessuto. Ora stiamo cercando di attivare altri progetti con altre razze di pecore italiane», spiega Paoletti. 

Negli ultimi dieci anni la produzione si è trasformata. Il lanificio ha iniziato a intrecciare il suo tessuto tradizionale con nuovi materiali: «Ci concentriamo su una clientela di fascia medio-alta e sul tessuto fantasia da capo spalla. Abbiamo cercato di muovere le superfici per avvicinarci al mondo del tweed, come Chanel. Il risultato di questa ricerca è l’unione dei nostri filati di lana con una serie di filati fantasia che costruiamo insieme oppure compriamo da filatori italiani specializzati ritorti con i nostri filati». Un filo di lana e un filo fantasia con il lurex, avvolti insieme danno vita al nuovo tessuto non senza aggiustamenti tecnici: «questi ritorti permettono nella tessitura di creare effetti di grosso-fine, opaco-lucido che danno movimento e tridimensionalità al tessuto. In questo modo creiamo movimenti piuttosto irregolari. Questa è una cosa facile da fare artigianalmente, magari sul telaio a mano, ma è più difficile da creare con i telai meccanici». Il misto lurex – lana naturale tecnicamente si potrebbe riciclare: «Nel momento in cui il lurex viene da un fornitore che produce da materiale ecologico allora il naturale con il filato potrà poi essere riciclato. Si tratta di una cosa ipotetica, al momento non ho ancora sentito nessuno che è riuscito a farlo a partire da una mistura», spiega Paoletti. Il lanificio si impegna anche a recuperare e riutilizzare gli scarti della produzione: «Se avanza del semi lavorato, quando rifaremo lo stesso colore inseriremo questo nuovo materiale di scarto per macchina lavora tutto insieme. Tutto quello che non può essere riutilizzato lo mettiamo a disposizione di vari progetti: artisti, designer, associazioni che raccolgono questo materiale di scarto per dargli una nuova vita».

La filiera corta della lana di Alpago

Un progetto pilota. Molti allevatori della zona si stanno riunendo in cooperative. Il lanificio Paoletti ha avviato altre collaborazioni: «stiamo lavorando con la lana della pecora Brogna che viene dalla Lessinia, in provincia di Verona. La cooperativa si chiama Lana al pascolo, formata da ragazze che lavorano come allevatrici. Noi ci occupiamo della lavorazione, mentre loro hanno punti vendita. Supportiamo anche il turismo lento di montagna».

Emanuela Colaci

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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